Il cooperante, una figura in continua evoluzione

Quello del cooperante era, fino a qualche tempo fa, un lavoro fuori dall’ordinario. Oggi si sta trasformando nella scelta di un numero sempre più alto di persone. Con competenze e caratteristiche sempre nuove. Ne parliamo con Diego Battistessa, cooperante e attualmente coordinatore accademico presso l’Istituto di studi internazionali ed europei “Francisco de Vitoria” dell’università Carlos III di Madrid.

di Camilla Fogli

Con l’aumento di situazioni critiche e di emergenza, aumenta anche la domanda nel mondo della cooperazione, un settore in crescita che si sta aprendo e trasformando, e con lui anche chi ne fa parte. Questo non vuol dire però che diventare un operatore della cooperazione internazionale sia una decisione facile o banale, anzi. Si tratta di un lavoro che richiede un impegno costante, per gestire non solo la complessità delle relazioni che si intrecciano tra i vari attori, ma anche per stare al passo con una continua necessità di adattamento e aggiornamento.

Al riguardo, il portale Open Cooperazione fornisce una panoramica aggiornata al 2015 dei dati sulle principali ong italiane. Dai dati presentati, emerge l’importanza che questa parte del settore no-profit ha acquisito negli ultimi anni: i bilanci di 115 ong raggiungono quasi mezzo miliardo di euro, ma soprattutto il totale delle risorse umane impiegate, in Italia e all’estero, corrisponde a più di 16mila persone, senza contare gli oltre 80 mila volontari impegnati in oltre 2500 progetti sparsi in un centinaio di paesi.

Le risorse umane impiegate dalle 115 ong italiane censite da Open Cooperazione

Per riuscire a comprendere un po’ meglio questa realtà, così dinamica e varia, ci siamo fatti aiutare da un esperto del settore, Diego Battistessa, che sarà il docente del webinar gratuito di Ong 2.0 “Cooperazione internazionale: strumenti e buone pratiche per operare nel settore” e del corso “Professione cooperante: da dove cominciare”.

“Il primo punto da chiarire è che non esiste un unico percorso, una formula matematica che se applicata correttamente ti fa diventare cooperante internazionale. In questi anni in giro per il Mondo ho conosciuto colleghi e colleghe con profili professionali e storie di vita completamente diverse tra di loro”

Secondo Battistessa “la cooperazione è uno strumento molto forte, ha la capacità di offrire, attraverso il lavoro, le nostre stesse possibilità a qualcuno che non le ha”, quindi chi sceglie di fare il cooperante, soprattutto all’inizio, è perché vuole sentirsi parte della messa in pratica di un ideale, di un cambiamento in positivo. Come in tutte le cose, la giovane età e l’inesperienza portano ad un grande entusiasmo, che non guarda in faccia nessuno e che vuole avere un riscontro diretto, un risultato immediato. Maturando, ci spiega poi Diego, questo entusiasmo si trasforma e si affina, gli anni e l’esperienza portano ad una maggiore consapevolezza e pazienza, ma soprattutto ad una reale comprensione dei meccanismi di condivisione dei progetti e all’importanza non solo degli obiettivi comuni ma anche del compromesso. La cooperazione cambia e così cambiano i cooperanti. La prima cooperazione, quella di 20 anni fa, non avrebbe mai accettato di lavorare con le grandi multinazionali. Ora, invece, grazie ad alcuni provvedimenti presi in seno alle Nazioni Unite, così come in Italia con la riforma del 2014, si è arrivati ad un’azione collaborativa tra cooperazione e settore privato, senza il quale sarebbe impensabile crescere e riuscire a portare un cambiamento tangibile.

Per quanto riguarda, invece, le difficoltà incontrate da chi vuole intraprendere questo percorso, sono in particolare due quelle che Diego sottolinea. Una prima difficoltà comune a tutti i cooperanti è quella dell’età. A quanti anni si è pronti per partire? A quanti invece sarebbe meglio lasciare il terreno e passare alla cosiddetta cooperazione dietro le quinte? Non c’è una risposta giusta o sbagliata a queste domande, dipende molto dalla propria esperienza personale. Anzitutto, è proprio il terreno a compiere la prima selezione. Fare il cooperante sul campo è un lavoro duro, nel quale non basta essere altamente preparati, è un lavoro che richiede sacrificio e capacità di adattamento e, solitamente, i limiti – fisici o mentali – di una persona vengono fuori alla prima esperienza. Insomma, non tutti sono portati ad un impegno del genere, a prescindere dall’età o dalla propria motivazione personale.
Un’altra grande difficoltà nella scelta di fare cooperazione sul campo è poi quella legata all’aspetto umano di questo mestiere. Da un lato ci si trova coinvolti e inglobati in una nuova “grande famiglia”, come la definisce Diego, quella di tutti i cooperanti e le persone coinvolte che si incontreranno nel corso del progetto.

“Fare cooperazione vuol dire entrare a far parte di una tribù, costruita su aneddoti in comune, piccoli villaggi sperduti in cui tutto il mondo è stato. Una grande famiglia con il suo linguaggio e la sua simbologia. E quando cerchi di uscirne, quando ti dedichi a fare altro, inevitabilmente ti manca”

Dall’altra, però, le relazioni al di fuori sono sempre più fragili e complicate dalla distanza e dalla non condivisione delle esperienze. Può essere davvero difficile riuscire a spiegare, da un lato, e a comprendere, dall’altro, cosa prova un cooperante sul campo, cosa vuol dire vivere il costante effetto fisiologico dell’adrenalina e dell’imprevisto. Chi decide di fare il bambini cooperazionecooperante sa già che, nel bene e nel male, dovrà cambiare continuamente le sue persone di riferimento, quegli affetti che diventano punti fermi nella vita di una persona e di cui ognuno di noi ha bisogno. Insomma, a un certo punto ci si chiederà quando e per chi valga la pena fermarsi. Dall’esperienza di Diego, a riuscire a far convivere cooperazione e famiglia sono soprattutto quei cooperanti che trovano la loro casa in uno dei luoghi in cui si sono trovati a lavorare. A tal proposito, ci riporta la riflessione di un collega che l’ha colpito in modo particolare. Anche lui cooperante per alcuni anni, è arrivato ad una conclusione semplice ma efficace: prima di iniziare questo mestiere, che diventa irrimediabilmente anche un vero e proprio stile di vita, bisogna avere un piano, bisogna già sapere quando si vorrà lasciare il terreno, perché, come Diego ci ripete più volte, il terreno è additivo, e non ti lascia più.
A mettersi in mezzo è poi, molto spesso, anche quel senso di estraniamento e inadeguatezza che si prova una volta tornati dopo un periodo sul campo. Reintegrarsi nella vita di tutti i giorni non è infatti così banale, anzi. Sul terreno si vive in un contesto instabile, in cui nonostante esistano regole e protocolli precisi, a farla da padrona è principalmente l’improvvisazione. Tornare alle regole di un ufficio o alla tranquillità della routine quotidiana non sempre è scontato ed è anche per questo che, alla fine, in tanti decidono di ripartire.

La domanda che a questo punto sorge spontanea è dunque cosa ci si aspetti da un cooperante, quale sia il profilo ideale, oggi e nel futuro. Al riguardo Diego non ha dubbi: “alta professionalizzazione”. Poi ci spiega meglio: il nuovo mondo della cooperazione è un contesto che si sta specializzando e sta diventando sempre più competitivo. Una volta era difficile trovare qualcuno che volesse partire e quindi spesso chi decideva di fare il cooperante acquisiva la maggior parte delle competenze più tecniche in loco, ora non è più possibile. Anzitutto, ci troviamo in un contesto in cui non ci si può più semplicemente arrangiare; a partire dalle lingue, la cui conoscenza professionale è oggi data per scontata, per finire con specifiche competenze tecniche, come ad esempio il PCM (Project Cycle Management). Un buon esempio sono anche le ICT, le tecnologie della comunicazione e dell’informazione applicate allo sviluppo, ormai fondamentali, di cui si richiede una conoscenza professionale e trasversale. Una volta la tendenza era prendere più specialisti per diverse mansioni, ora assistiamo invece ad una definizione e professionalizzazione del lavoro del cooperante, tale per cui la tendenza delle organizzazioni è quella di limitare sempre di più il personale expat per utilizzare il capitale umano locale.

In sostanza, Diego ribadisce più volte il fatto che non si tratta di  un lavoro come tutti gli altri ma, come dice lui, “è un lavoro che ti chiede di essere quello che fai”.

Photo Credit: Diego Battistessa

Infografica: Open Cooperazione

L’Intelligenza Artificiale in 6 minuti

L’Intelligenza Artificiale (AI) ha fatto degli incredibili progressi nell’ultimo anno. Dai primi Ubers autonomi alle vittorie di AlphaGo abbiamo visto come AI sia sempre più frequentemente al centro dell’attenzione.
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ICT per i diritti umani, la democrazia e l’attivismo

ICT for human rights, democracy and activism è il sesto modulo, appena concluso, del percorso di formazione “ICT Innovations for Development”, durante il quale si è approfondito il ruolo delle ICT nella promozione e nella difesa dei diritti umani.

 

Il corso ha permesso ai partecipanti di studiare come le ICT possano essere utilizzate all’interno di processi democratici e nell’attivismo. Il modulo si è concentrato nello specifico su come le nuove tecnologie possano essere utilizzate dalla popolazione e dalle ong per monitorare, mostrare e far fronte alle violazioni dei diritti umani. Inoltre, sono stati analizzati i rischi e le conseguenze legate call’uso delle ICT e alla comunicazione digitale. Con lo sviluppo delle tecnologie e delle tecniche di sorveglianza e di monitoraggio online, infatti, gli attivisti di tutto il mondo sono spesso i primi destinatari di questi controlli, quindi il modulo ha analizzato anche tecnologie, piattaforme e tecniche di “anti-sorveglianza”.

Grazie alla partecipazione di diversi esperti, come Satu Valter, attivista anti-razzista e capo del No Hate Speech Campaign in Finlandia, Dr Dan McQuillan, professore a Goldsmiths, Università di Londra e una delle 93 persone che sono state torturate durante il G8 di Genova nel 2001, e Ron Salajattivista per i diritti umani e per la difesa dell’ambiente, durante le lezioni sono emersi molti temi, casi studio, strumenti pratici, piattaforme e applicazioni.

Satu Valtere ha avviato l’analisi di queste tematiche a partire dal concetto di “diritti umani”, evidenziandone le principali caratteristiche, i valori, ma anche i conflitti e i dilemmi, seguiti da un caso studio dalla Finlandia. Satu ha riportato come esempio la No Hate Speech Campaign, una campagna europea lanciata dal Consiglio d’Europa, per analizzare vantaggi e svantaggi delle campagne per i diritti umani promosse dalle organizzazioni internazionali. Considerando che questa campagna si concentra sulla lotta all’hate speech online, è nata un’interessante discussione sul dilemma che vede scontrarsi la libertà di espressione e l’hate speech e che pone la domanda di dove si collochi la linea di demarcazione che li separa.

Durante la seconda lezione Ron Salaj ha parlato del concetto di attivismo nell’era digitale, soffermandosi soprattutto sulle campaigning techniques degli attivisti e dei movimenti dissidenti: dalle tecniche di pubblicazione del samizdat, al sabotaggio culturale e alle radio pirata.
Lattenzione si è poi concentrata su come l’attivismo sia cambiato con l’avvento di internet. Basti pensare a quando gli attivisti hanno chiuso per ore il sito della compagnia aerea Lufthansa utilizzando un attacco DDoS per protestare contro la deportazione degli immigrati con gli aerei della compagnia; o all’utilizzo del Google Bombing, sfruttato dal gruppo English Disco Lovers in senso anti-razzista.

28476745294_3f9e28e373_bDan McQuillan ha invece approfondito il concetto di open source intelligence. Partendo dal significato di “tecniche di sorveglianza”, che etimologicamente indica il “guardare dal basso”. Per illustrare questa tecnica il docente ha descritto il caso Rodney King a Los Angeles e il #BlackLivesMatter, un movimento internazionale di lotta alla violenza e al razzismo contro le persone di colore; il movimento è coordinato, ma decentralizzato e senza un leader, e si distingue per la sua etica inclusiva, coinvolgendo donne, attivisti LGBT, ecc.

Nel corso dell’ultima lezione, tenuta dallo stesso docente, si è parlato di online surveillance and tracking, di sorveglianza e monitoraggio online. In particolare, si è cercato di ampliare le abilità pratiche dei partecipanti tramite la dimostrazione e l’utilizzo di diversi strumenti e piattaforme, quali Lightbeam, il plugin di Mozilla che aiuta l’utente a verificare in diretta se qualcuno sta seguendo le sue mosse online; e Panopticlick, un progetto di ricerca di EFF o Tor browser, un sistema per mantenere il browser e le ricerche sul web anonime.

Infine, parte della lezione è stata dedicata alla discussione sull’utilizzo da parte di grandi democrazie di avanzati strumenti di spionaggio, in contrapposizione alla nascita di nuovi movimenti, il cui obiettivo è quello di resistere, agire ed educare contro il monitoraggio online. Un esempio su tutti? Cryptoparty un movimento decentralizzato che mira a formare e informare sulla protezione personale nello spazio digitale.

Migrathon Dakar, vince “Engagement for Africa”

110 studenti, sviluppatori, web designer e manager, 40 associazioni di giovani e migranti della periferia di Dakar, 10 giornalisti, 20 operatori delle ong italiane alla presenza della rappresentanza dell’Agenzia Italiana di Cooperazione Internazionale in Senegal; questi i numeri di Migrathon, l’hackathon che si è svolto a Dakar da venerdì a domenica scorsa, seconda tappa del percorso iniziato a Torino nel dicembre scorso. Continua a leggere

Un nuovo “mobile money ecosystem”

Si è da poco concluso anche il settimo modulo del corso ICT Innovations for Development tenuto da Gianluca Iazzolino e dedicato interamente all’utilizzo delle nuove tecnologie nell’ambito dell’inclusione finanziaria.

Il settore dei servizi finanziari digitali si amplia sempre più velocemente; in poco tempo si è passati dalla semplice possibilità di pagare tramite mobile, alla possibilità di effettuare transazioni e operazioni più complesse, come prestiti o assicurazioni, utilizzando un dispositivo come il cellulare o il tablet. Ormai non si parla più solamente di mobile banking, di “un sistema cioè che permette ai clienti di istituzioni finanziarie di accedere al proprio account tramite un dispositivo mobile”, ma di mobile money, “un network di infrastrutture per depositare e trasferire denaro facilitando il cambio da cash alla valuta elettronica tra diversi attori”(Kendall et al. 2012), “un’innovazione strategica per tagliare i costi e rafforzare la portata dei servizi finanziari” (Porteous 2007; Kumar, McKay and Rotman 2010; Donovan 2012).

MasterCard Foundation's partnership with Opportunity International and Opportunity Bank is expanding access to financial services to 1.4 million people, particularly in rural areas. Mobile phone banking is a large component of these activities. Julius Sakiaiiuu at his mobile phone shop and mobile money kiosk in Kanjuki Village. Julius received loans from Opportunity Bank to expand his mobile phone shop in Kanjuki Village. "Before mobile banking, I would have to bay 10,000 shillings to go to the nearest bank branch to deposit 10,000 shillings," he said.Oggi, spiega Iazzolino, si delinea quindi un nuovo mobile money ecosystem, in cui gli attori coinvolti non sono più solamente le banche e i loro clienti, ma tutte le istituzioni e gli attori che offrono servizi finanziari, gli operatori, i proprietari di attività, i produttori, gli utenti, ecc. Lo scenario è quindi quello di un network, di una nuova partnership di digital financial actors, che sviluppa nuove relazioni, nuovi scambi e nuove opportunità.

In questo scenario emerge con prepotenza il tema dell’inclusione finanziaria, focus specifico delle lezioni del settimo modulo del corso. “L’accesso per tutti a un gran numero di servizi finanziari – risparmio, entrate, assicurazione e pagamenti – offerti in modo responsabile e sostenibile da una serie di providers in un ambiente ben regolato”(Porter, 2015) è la precondizione per lo sviluppo, soprattutto nei Paesi a basso reddito, e secondo molti costituirebbe un elemento importante nella lotta alla povertà.

Iazzolino tuttavia mette in guardia sulle problematiche che l’inclusione finanziaria può trovarsi ad affrontare in questa nuova compagine mondiale e sulle conseguenze che questa può avere. In particolare, la grande componente digitale del settore finanziario ha portato oggi alla “capitalizzazione dei dati e delle informazioni personali”, la cosiddetta “datafication”. Questa deriva dell’utilizzo della tecnologia nel settore, offre sì possibilità importanti, ma rischia anche di condurre a una maggiore esclusione di alcune persone che vivono in determinate condizioni.

Immagine2Il docente riporta due esempi africani: Branch e Firstaccess, due providers di servizi finanziari. Sono sostanzialmente due app che è possibile installare sul telefono; queste acquisiscono tutte le informazioni sull’utente a partire dai dati del suo cellulare, dalle sue attività, dai social media, dalle transazioni economiche, ecc. e sulla base di queste un algoritmo valuta le condizioni finanziarie dell’utente, permettendogli o impedendogli l’accesso ai diversi servizi. I dati diventano quindi una fonte di valore, sulla base della quale includere o escludere una persona dalla grande costellazione dei nuovi servizi finanziari.

Un altro aspetto (tra molti altri) che il docente spiega per ottenere una vera inclusione finanziaria è il contesto locale. La sola esportazione di piattaforme, tecnologie o modelli finanziari non sarà mai davvero efficace ed inclusiva, se la popolazione di riferimento non è disposta ad accettarla, se la tecnologia proposta è troppo avanzata, se nel contesto sociale in cui si desidera inserirsi non sono presenti le condizioni adatte per farlo.

Un esempio è Telesom Zaad, la prima piattaforma mobile money in Somaliland. “Il servizio offerto da Telesom è dilagato nel Paese essendo molto attrattivo, poiché semplifica la vita alle persone” spiega Abdirahman Adan Shire, il Manager di Zaad Service, rispondendo a dei bisogni reali della popolazione locale.

ICT for Social Good: un premio per gli innovatori locali

L’innovazione è una potente forza di sviluppo locale, capace di generare idee che rivoluzionano la vita delle comunità. Per questo, abbiamo deciso di organizzare un premio, dedicato a quella miriade di progetti, di realtà, di idee innovative create dal basso che spesso faticano a essere riconosciute e a partecipare ai programmi di sviluppo internazionale ma che rappresentano un terreno fertile da cui partire per costruire un nuovo approccio alla cooperazione internazionale e allo sviluppo locale.

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