Nasce ImpactSkills, il nuovo spazio digitale per lavorare nel sociale

Dopo oltre 10 anni di lavoro congiunto tra ong ed enti dell’innovazione tecnologica per supportare l’uso delle tecnologie digitali nella cooperazione allo sviluppo, 102 percorsi formativi realizzati, oltre 7 mila persone coinvolte in 54 paesi, Ong 2.0 è entusiasta di presentare oggi la sua nuova avventura: ImpactSkills , il nuovo spazio digitale appena nato per acquisire competenze, incontrarsi, progettare e lavorare nel Terzo Settore e nella Cooperazione Internazionale in Italia.

di Silvia Pochettino  

Stiamo uscendo – speriamo – da due anni di pandemia in cui vivere lo spazio digitale è diventato la normalità, forzata, di tutti. E’ stata molto dura perché ci ha obbligato a un cambiamento radicale, repentino e spesso totalizzante del nostro modo di vivere impedendoci di mantenere quell’equilibrio tra vita online e offline che è assolutamente necessario per il benessere fisico e psicologico.

Tuttavia ha permesso a molte categorie di persone, enti e istituzioni, prima ampiamente avulse dal digitale, di imparare rapidamente l’uso di molti strumenti e soprattutto di acquisire la consapevolezza che si possono fare moltissime più cose online che guardare i social e che, in alcuni casi, questo è estremamente conveniente. Noi come Ong 2.0 l’avevamo intuito oltre 10 anni fa, quando abbiamo iniziato a realizzare i primi webinar collegando persone da tutte le parti del mondo, in anni in cui la stessa parola webinar era misteriosa e sconosciuta nel mondo non profit.

Il processo di evoluzione è stato lento. Fino all’arrivo della pandemia. Con il Covid in pochi mesi l’Italia, come quasi tutto il mondo, ha fatto un balzo tecnologico che avrebbe richiesto ancora parecchi anni. Nel bene e nel male.

E’ per questo che anche noi come Ong 2.0 abbiamo sentito il bisogno di ripensarci e fare dei passi avanti creando uno spazio digitale più articolato e performante al servizio del lavoro sociale, ma volutamente in controtendenza con l’automatizzazione che molta digitalizzazione porta con sé.  Abbiamo voluto creare uno spazio che pur essendo totalmente digitale recuperi in modo molto forte la relazione umana, di cui abbiamo sentito tanto la mancanza in questi due anni.

Prima di tutto siamo persone.

E ImpactSkills è un luogo di incontro tra persone (che ormai sanno che possono relazionarsi in modo autentico anche attraverso il web) dove  chi vuole inserirsi nel mondo sociale o è già un operatore ma vuole rinnovare le sue skills e ampliare i suoi contatti, può avere colloqui individuali face to face, essere seguito da un mentor o da un coach, partecipare a percorsi formativi live online dove si ricreano le dinamiche di aula fisica, mettersi in gioco nei weblab, laboratori  applicativi e pratici per la produzione di risultati concreti subito. Oppure può partecipare alle  community tematiche di social learning, scambio e co-progettazione. O, meglio ancora, può fare tutte queste cose insieme 🙂

 

Insomma un campus virtuale per l’impegno sociale dove speriamo nasceranno anche nuove relazioni, progetti e idee. Siamo solo all’inizio, è evidente, e la direzione si rinforzerà con la partecipazione delle persone e le idee che loro stessi porteranno. Sappiamo però anche che la tecnologia continua a evolvere velocissima e questo ci permetterà a breve di implementare nuove funzionalità e fare cose che forse oggi neanche ancora immaginiamo.

In questo momento la nostra rete di esperti è la nostra forza: persone altamente qualificate, con una lunga esperienza alle spalle, che hanno fatto dell’impegno sociale la loro scelta di vita e la loro professione. Esperti di tecnologie digitali, progettazione, comunicazione e fundraising, mentoring e coaching e molto altro. Abbiamo avviato partnership con numerose associazioni, ong di cooperazione internazionale e startup a impatto sociale in cui è possibile realizzare tirocini e stage, per iniziare o per mettere a frutto le competenze acquisite.

In breve con Impactskills vogliamo vivere lo spazio digitale al meglio, aiutare i giovani a entrare negli enti sociali e dare il nostro piccolo contributo per far crescere un terzo settore professionale, smart e sempre più efficace.    

Gli enti fondatori di Impactskills rappresentano tutta l’Italia: ACCRI Trento e Trieste, CELIM Milano, CISV Torino, COPE Catania, CVCS Gorizia, Informatici senza frontiere Treviso, LVIA Cuneo e Torino, Progettomondo Verona, Social Innovation Teams Milano. I soci fondatori sono Silvia Pochettino, giornalista e formatrice; Paolo Landoni, professore al Politecnico di Torino; Rosa Maria Manrique, project manager. Gli enti partner: Aspem (Cantù), Amici dei Popoli (Bologna e Padova), Comi (Roma). Gli enti con cui già si collabora per la realizzazione di iniziative e prodotti: Cospe (Firenze), Gnucoop (Milano), Coaching Inside School (Milano), Idea Comunicazione (Roma), SAA- School of Management (Torino),  TechSoup, Università di Torino

HATSI JARI: L’Allevamento e il Digitale si incontrano nel Ferlo

Di Pietro Orfei, collaboratore ONG 2.0/CISV Onlus

L’Allevamento e il Digitale si incontrano nella regione del Ferlo, in Senegal. Il punto di incontro tra questi due mondi è il sistema Hatsi Jari, una soluzione ICT sviluppata da ProSE (centro senegalese di consulenza informatica) e promossa nel progetto DIGIT-ALF. L’iniziativa rientra nel programma Tecnologie per lo Sviluppo Sostenibile della Fondazione Cariplo in partenariato con CISV, RBM (Reseau Billittal Maroobe, rete internazionale che tutela i pastori transumanti) e lo stesso ProSE.
L’obiettivo del progetto è la diffusione di Hatsi Jari come strumento innovativo a disposizione del settore agro-pastorale con particolare attenzione alla sicurezza alimentare. Nell’area agro-pastorale del Ferlo l’allevamento è il settore principale di sostentamento delle popolazioni. Durante le stagioni secche, spesso le mandrie sono costrette a spostarsi a causa della difficile reperibilità di mangime. Ciò causa un’inadeguata alimentazione per il bestiame che si traduce in un’altrettanta insicurezza alimentare per le comunità che risiedono nel Ferlo.  
Hatsi Jari si propone come innovazione per l’allevamento: 

  • Rendendo accessibile l’informazione sulle disponibilità di stock di mangime per gli allevatori nei periodi di siccità. Ciò favorisce la sedentarizzazione delle mandrie presso le comunità di provenienza per il mantenimento delle famiglie;
  • Proponendosi come nuovo strumento gestionale dei magazzini forniti di foraggio, attraverso transazioni e movimenti tracciabili e visibili e pagamenti digitali. Spesso sia per i magazzinieri che per i pastori avere con sé ingenti somme di denaro rappresenta un rischio non trascurabile;
  • Garantendo la sostenibilità e il reinvestimento dei guadagni al fine di acquistare nuovi stock alimentari.

Nella prima parte di DIGIT-ALF, ProSE ha inserito su Hatsi Jari i 6 magazzini individuati da progetto e si è occupata della formazione rivolta ai responsabili dei magazzini. Nel corso della formazione si è spiegato come si inserisce lo stock prodotto e come si aggiornano le relative entrate ed uscite, nonché come si indicano i prezzi e come si procede con gli acquisti.
Successivamente DIGIT-ALF ha vissuto la sua prima fase nei mesi tra Aprile e Giugno. Come Ong 2.0 abbiamo svolto lo scorso luglio una missione nel Ferlo al fine di valutare i benefici apportati dal sistema Hatsi Jari, indicando eventuali suggerimenti in prospettiva della seconda fase progettuale e della replicabilità in altri contesti.Abbiamo incontrato i 6 magazzinieri coinvolti nel progetto assieme alle organizzazioni pastorali ed allevatori che beneficiano di Hatsi Jari, per un totale di circa 50 persone coinvolte. Lo scopo dei focus group tenuti nelle 6 differenti comunità del Ferlo ( Dahra, Dayane, Linguère, Namarel, Bombodé e Ganina) è stato quello di apprendere dai nostri interlocutori l’esperienza maturata con Hatsi Jari.
Alla luce dei dati raccolti, possiamo evidenziare che:

  •  Hatsi Jari è un sistema digitale utilizzato direttamente da 3 dei 6 magazzini a causa dell’assenza di segnale. Un quarto magazziniere ha difficoltà di utilizzo laddove sorge il magazzino ed è costretto a spostarsi per avere la connessione.
  • Laddove non c’è Connessione Internet, i magazzinieri inviano i dati a ProSE che si occupa di aggiornarli per ridurre il margine d’errore nell’informazione.
  • Tutti i magazzini coinvolti ritengono poco efficace la formazione ricevuta e chiedono una nuova formazione. Per loro stessi e per gli allevatori soprattutto. In lingua locale e non in lingua francese. Una formazione funzionale con tempi utili all’assimilazione.
  • Hatsi Jari è una piattaforma disponibile in più lingue, ma non nelle lingue locali (wolof, pulaar). Quanto emerso dalle interviste evidenzia la necessità di renderlo più accessibile partendo proprio dalla questione linguistica.
  • I magazzinieri e gli allevatori utilizzano Hatsi Jari come sistema informativo e non nelle sue molteplici funzionalità (acquisto digitale, ad esempio). Da parte dei magazzinieri migliora l’informazione sulle disponibilità di stock e rende più semplice il gestionale del magazzino, rendendo i dati più facili da consultare rispetto ai registri tradizionali. Dalla parte degli allevatori, il sistema mette a disposizione sia le quantità che le posizioni e i numeri telefonici dei magazzini e viene utilizzato raramente e solo nella messaggistica audio (la quale permette di esprimersi in lingua locale), rendendo poco fruibile l’informazione nei canali di comunicazione.
  •  Tra i pro di Hatsi Jari ci sono una migliore visibilità e trasparenza, nonché rapidità nella raccolta e consultazione dei dati.
  • I contro sono invece
    1. l’assenza di segnale che rende l’informazione difficile da aggiornare e consultare.
    2. La mancanza di strumenti adeguati per l’utilizzo di Hatsi Jari (telefoni, tablet).
    3. La sensibilizzazione verso i pastori, scettici di effettuare pagamenti digitali e a favore invece di pagamenti in contanti.

Concludiamo la valutazione su Hatsi Jari utilizzando i Principi Digitali lo Sviluppo Digitale come indicatori. Sono 9 linee guida per supportare decisioni sul design e/o l’implementazione delle ICT per lo Sviluppo.

  • Hatsi Jari nasce come soluzione digitale per la sicurezza alimentare. La problematica è reale e considerata tale anche dalle comunità del Ferlo. Ciò che manca alla fine della prima fase di progetto è sicuramente la fase di Design con l’utente. Gli utenti di Hatsi Jari sono diversi: sono i magazzinieri, ma sono anche gli allevatori. Ciò che emerge dai dati è che si tratta sicuramente di una ICT sviluppata PER questi users, ma non CON questi users. Di conseguenza la sensibilizzazione rimane superficiale, a tal punto che per i magazzinieri diviene uno strumento gestionale della loro attività mentre per gli allevatori rappresenta un mezzo di informazione, ma non uno strumento per effettuare transazioni in modo rapido e sicuro.
  • Per aumentare l’impatto di una soluzione ICT è utile non soltanto conoscere lo spazio d’intervento, ma anche adattare il sistema per facilitarne l’utilizzo. Gli ecosistemi non sono neutrali ai fini di una ICT: si compongono di vari attori con le loro esigenze e complessità (alfabetizzazione, assenza di segnale, barriere linguistiche…).
  • Una soluzione ICT deve mettere a disposizione i propri metadata. Hatsi Jari ad oggi non ha la possibilità di consultare il numero di visitatori e membri attivi, ma permette solo di scaricare la lista di transazioni. Avere dei metadata consente di orientare il progetto verso certi orizzonti piuttosto che altri.
  • Oggigiorno, l’informazione è potere e di conseguenza è importante che la privacy e sicurezza dei dati sia considerata adeguatamente. Hatsi Jari mette a disposizione numeri telefonici e nomi dei membri iscritti senza garantire sufficientemente la privacy di chi ne fa parte e questo potrebbe essere un problema considerando la legislativa di realtà come le Nazioni Unite o la stessa Unione europea in merito alla data protection.
  • Oltre ai nove Principi Digitali, continuo a considerare di fondamentale importanza l’introduzione di un decimo parametro. L’educazione digitale. In un mondo in cui il digital divide è accentuato sempre più ed è alla base di disuguaglianze sempre maggiori, una ICT per lo Sviluppo deve sempre tenere in considerazione il fattore educativo. L’alfabetizzazione digitale è possibile laddove ci siano i giusti mezzi.

Le 15 startup innovative con forte impatto sociale in Italia

Api, braccia bioniche e vetrate fotovoltaiche, di cosa si occupano e come si individuano le 15 migliori startup innovative con vocazione sociale in Italia?

Negli ultimi anni il mondo delle startup è cresciuto in maniera sempre più vertiginosa, la startup in quanto tale consente anche a chi non abbia grande esperienza nell’ambito dell’imprenditoria classica di promuovere progetti che possano poi essere replicabili ma soprattutto scalabili in modo flessibile e dinamico.

 

I campi d’azione delle startup sono ovviamente i più disparati ma Social Innovation Monitor (SIM) ha deciso di concentrarsi sulle startup italiane che avessero un forte interesse per il sociale e del loro impatto sul Paese. 

Lo scopo dello studio è quello di creare una mappa organizzata di tutte queste startup per analizzarle, confrontandole in modo più semplice ed efficace ma soprattutto per essere in grado di offrire spunti di miglioramento, coordinazione ed efficacia alle startup stesse.

E’ inoltre bene ricordare come l’attenzione per il sociale non sia per forza sinonimo di non profit. Questa analisi tiene infatti conto di tutte quelle startup che vanno dal non profit alle imprese tradizionali a scopo di lucro includendo tutte le versioni ibride che si trovano nel mezzo.

Lo studio considera innanzitutto le startup innovative italiane nate entro la fine del 2020 nel loro complesso applicando poi tutta una serie di distinzioni giuridiche per la definizione di startup: come essere più giovani di 60 mesi, non avere più di 5 milioni di euro di fatturato annuo, non essere nati dalla scissione di imprese più grandi ecc.. In seguito vengono prese in considerazione unicamente quelle startup che, oltre ad occuparsi, del tutto o in parte, di temi che rientrano nel sociale, abbiano un significativo impatto sul territorio nazionale.

Alla fine di questa analisi vengono riportate quelle che si possono considerare le miglior startup innovative di vocazione sociale in base a diversi criteri come:

  • ricavi (superiori a 1,831 milioni di euro)
  • numero di dipendenti (superiore a 14)
  • crescita dei ricavi (incremento di più di 3 classi)
  • crescita del numero di dipendenti (incremento di più di 2 classi)
  • risorse finanziarie (avere ricevuto, entro il 2020, un valore complessivo di investimenti e finanziamenti a fondo perduto superiore a 3 milioni di euro)

L’elenco di queste startup è disponibile a questo link e mira a dare visibilità a queste startup e riconoscerne i meriti ottenuti negli ultimi anni.

Ma di cosa si occupano nello specifico queste startup? 

Le 15 startup individuate si dividono sostanzialmente in due ambiti che poi ognuna affronta in modo specifico: 

L’ambito della sostenibilità ambientale, in cui le startup si differenziano occupandosi di monitoraggio delle fonti di energia rinnovabile, di trattamento e depurazione dell’acqua, di controllo e diagnostica della salute delle api, di creazione di calzature e oggetti di design partendo da risorse riciclate, di ottimizzazione delle attività agricole ecc.. Due startup nello specifico si concentrano sullo sviluppo di materiali come bioplastiche ad alte prestazioni o vetrate fotovoltaiche, mentre altre due si occupano, una del riciclo di materiali elettronici in un’ottica di green economy, e l’altra di fornire servizi di cloud storage ecosostenibile;

L’ambito della salute, dove alcune startup si occupano di sviluppare terapie che aiutano contro malattie autoimmuni mentre una in particolare crea e sviluppa braccia bioniche per persone con disabilità agli arti superiori.

Altri dati riportati dall’analisi di SIM confermano l’effettiva crescita continua delle startup in Italia che sono generalmente aumentate di numero e ampliate dal 2019 al 2020 (con qualche distinzione e livelli differenti di crescita tra i diversi tipi di startup).

Dal punto di vista della distribuzione geografica delle startup sul territorio nazionale è possibile osservare un andamento generale in cui le regioni del nord Italia (Lombardia prima tra tutte) sono quelle con un maggior numero di startup, a seguire il centro e poi il sud (ad eccezione delle imprese sociali dove la prima regione è invece la Campania). Nonostante ciò la distribuzione non è particolarmente asimmetrica visti comunque alti numeri su tutto il territorio nazionale.

L’intelligenza artificiale al servizio dello sviluppo sostenibile

Cosa succederebbe se algoritmi predittivi riuscissero a prevenire i fenomeni climatici estremi, ottimizzare i consumi energetici e ridurre la CO2? Se esistessero sistemi di riconoscimento facciale in grado di rilevare la malnutrizione infantile in Africa o se un’intelligenza artificiale fosse in grado di individuare i luoghi più discriminatori e intolleranti? 

In realtà tutto questo già succede. E molto altro ancora. 

Sono solo alcuni degli esempi riportati nel libro “L’Intelligenza Artificiale per lo Sviluppo Sostenibile”, realizzato da Ong 2.0 e CISV, AIxIA (l’Associazione Italiana per l’Intelligenza Artificiale) e dal Dipartimento di Informatica dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro grazie al sostegno del Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale e di 4 aziende italiane leader nel settore; Engineering, Readytec, Exprivia e QuestIT nonché la collaborazione del Centro Nazionale delle Ricerche.

Il volume di 330 pagine parte dalla fotografia di cosa sia l’Intelligenza Artificiale (IA) oggi, al di là dei miti e degli stereotipi, per evidenziare potenzialità e rischi dell’IA in relazione alle diverse sfide globali.

 

 

 

 

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Il cuore del libro riguarda infatti la relazione tra IA e i 17  SDGs (Sustainable Development Goals) definiti dall’Agenda 2030 dell’ONU. Fame, salute, riduzione delle diseguaglianze, crisi ambientale, ecc.. tutti gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile sono affrontati analizzando il ruolo che l’IA può giocare pro e contro. Con un approccio sempre olistico, perché  gli stessi SDGs sono strettamente interconnessi tra loro e non è possibile affrontarne uno senza considerare le possibili ripercussioni su tutti gli altri  (pensiamo ad esempio la tensione tra la lotta alla fame e conservazione dell’ambiente).

L’Intelligenza Artificiale risulta uno strumento potente per questo tipo di approccio in quanto capace di affrontare problemi estremamente complessi elaborando enormi quantità di dati e variabili impossibili per l’essere umano.

Come sostiene Piero Poccianti, presidente AIxIA, uno dei principali autori del libro:

Viviamo un momento complesso. La pandemia in corso è solo una delle emergenze. Il riscaldamento globale, la sesta estinzione di massa, l’inquinamento da plastica, pesticidi e altri veleni che stiamo distribuendo nell’ambiente rappresentano sfide di sopravvivenza molto complesse da affrontare. Eppure, mai come oggi, abbiamo a disposizione strumenti e conoscenze che potrebbero aiutarci a risolvere questi problemi. Noi siamo convinti che l’Intelligenza Artificiale sia uno di questi strumenti, a patto di porci gli obiettivi giusti.

Questo è il tema centrale del libro: indirizzare l’Intelligenza Artificiale verso il benessere dell’umanità e dell’intero pianeta che ci ospita. “Se indirizziamo l’IA verso obiettivi sbagliati otterremo effetti distopici, ma se formuliamo i nostri obiettivi in modo corretto, questa disciplina potrà essere fondamentale per risolvere le difficili sfide che ci aspettano”, aggiunge Silvia Pochettino, Founder e Ceo di Ong 2.0.

Ma come farlo? Il volume presenta nella parte finale anche 10 raccomandazioni di fondo che dovrebbero essere poste alla base dello sviluppo e dell’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale. 

Un’ampia parte del volume è poi dedicata all’analisi delle strategie che i vari Paesi stanno pubblicando per indirizzare lo sviluppo della disciplina a livello locale e mondiale, con un focus sul contributo dell’IA nell’ambito della negoziazione internazionale (obiettivo n 17 degli SDGs). L’approccio olistico e multidisciplinare non è infatti sufficiente se non adottato in un contesto di cooperazione internazionale, in modo che non solo non venga tralasciato nessun obiettivo ma non venga lasciato indietro nessun Paese.

Attraverso  il dibattito sull’Intelligenza Artificiale il libro affronta i punti nodali delle sfide attuali, mettendo anche in discussione il sistema complessivo. Come  sostengono gli autori al termine dell’introduzione al volume “Veramente una specie che sta distruggendo il pianeta che la ospita, compromettendone e alterandone profondamente l’ecosistema può essere definita intelligente?”

“E’ necessario un profondo ripensamento di gran parte della cultura dominante per affrontare una sfida estremamente difficile: portare benessere a 7,6 miliardi di persone (numeri in crescita) senza distruggere la biodiversità e il resto del sistema vivente, senza il quale non siamo in grado di sopravvivere.

E’ una sfida molto complessa, per la quale abbiamo bisogno di un enorme sforzo interdisciplinare. In questo l’IA con le capacità che può portare oggi e le prospettive di evoluzione su cui la ricerca si sta concentrando, può portare un contributo prezioso con sistemi in grado di misurare i costi e i benefici delle nostre azioni, di supportare le nostre decisioni, di suggerire soluzioni innovative, di analizzare e diagnosticare situazioni complesse. L’Intelligenza Artificiale, come tutti gli strumenti potenti, ci spaventa. Ma forse dovremmo spaventarci anche di un mondo dove la nostra intelligenza appare inadeguata alle sfide che abbiamo di fronte a noi”.

 

Il coaching per aiutare chi aiuta

Partiamo da una storia per scoprire il mondo del coaching. Da un racconto, che arriva dal mondo del non profit, della cooperazione internazionale, dove normalmente non ci sono progetti di coaching strutturati e dove il coaching non viene considerato una pratica diffusa come strumento di sviluppo.

Da questa storia nasce il progetto avviato da Ong 2.0, in stretta collaborazione con Inside Coaching School, con l’obiettivo di sviluppare gradualmente l’apprendimento e la contestualizzazione della cultura del coaching, intesa come “approccio e strumento”, funzionale a sostenere lo sviluppo delle persone nella gestione del loro ruolo.

A raccontarci questa storia è Paolo Romagnoli che da più di 20 anni si occupa di risorse umane con una specifica competenza nel settore non profit. È anche consulente, formatore e orientatore in diversi enti, in particolare del terzo settore.

 

Paolo, tra coaching e cooperazione che nesso c’è?

C’è un’evidenza nella cooperazione: lo sguardo e l’azione sono sempre stati concentrati sui progetti e sull’aiuto agli altri. Ma chi cura chi cura? Questo è il punto. Spesso gli operatori che lavorano nella cooperazione vivono un senso di abbandono e di scarsa attenzione unito ad un impegno consistente, totalizzante, rischioso e spesso al limite. Chi opera in questo contesto, sia all’estero sia in Italia, pur coprendo ruoli e incarichi di grande responsabilità e delicatezza è seguito e sostenuto solo parzialmente nel suo operare e nella crescita professionale, dando spesso per scontato le capacità e la “tenuta” nel tempo.Il coaching è una risposta tecnica e strutturata per sopperire a questa mancanza. Le forti motivazioni connesse all’identificazione con valori, cause sociali e l’impegno per gli altri, che sono sempre stati driver fondamentali di ingaggio – oggi – possono essere arricchite e rafforzate dal valore aggiunto dei percorsi di coaching.

Cosa è concretamente il coaching?

Il coaching è definibile come una partnership tra coach e coachee (così si definisce chi riceve un’azione di coaching) che, attraverso un processo creativo, stimola la riflessione, ispirandoli a massimizzare il proprio potenziale personale e professionale.

Non è psicoterapia, counseling, né consulenza o mentoring. Ha specificità interessanti che possono funzionare meglio di altri approcci nella cooperazione. Alcune delle sue caratteristiche vincenti sono azione in partnership, responsabilità e libertà di decisione del coachee, processo creativo, massimizzazione del potenziale personale e professionale, concretezza.

Consiglieresti ad un cooperante che ha dei problemi da risolvere, di rivolgersi ad un coach?

Certamente e per diversi motivi: il coaching è molto democratico non ti dice cosa devi fare, non ti da la pappa pronta, ma ti aiuta creativamente a ritrovare dentro te stesso le ragioni e gli stimoli per cambiare e migliorare. E’ molto concreto: ogni incontro finisce con una azione che il coachee sceglie e su cui si misura.

E poi è tutto proiettato nel futuro. E’ un approccio espansivo che fa ritrovare motivazioni e voglia di stare bene. In un mondo della cooperazione dove i valori, le motivazioni le energie, nonostante tutto, sono ancora ampiamente presenti, si tratta solo di farle esprimere ancora e meglio e l’approccio coaching è sicuramente un bel strumento.

Se uno decide “di provare” come può fare?

ONG 2.0 da sempre all’avanguardia nel cogliere le esigenze di una cooperazione che cambia, ha intuito questa esigenza di coaching e a breve sarà possibile con un semplice click sul sito  accedere a percorsi con coach esperti certificati. Dopo l’estate, per chi fosse interessato a imparare un approccio coaching da utilizzare nel suo lavoro e nella sua vita, potrà iscriversi ad un corso propedeutico fatto apposta per questo.

La proposta, ideata e realizzata da Ong 2.0 in stretta collaborazione con Inside Coaching School, si articola in tre offerte:
– un webinar introduttivo al coaching per il Terzo Settore e la Cooperazione Internazionale
– uno sportello di coaching, gestito da coach esperti e certificati, attivo tutto l’anno
– un seminario introduttivo al coaching ”Project Manager as a Coach nella Cooperazione Internazionale” progettato secondo logiche interattive ed esperienziali.

Paolo qual è l’ultimo consiglio che vuoi dare?

Ho avuto l’opportunità di fare un percorso e diventare coach. Ho scoperto come aiutare il coachee concretamente a traguardare il ponte verso il futuro. In partnership, con uno stile concentrato sul coachee condizioni che potenziano l’autosviluppo e aprono a nuovi insight.

Nel mio mondo, dove lavoro da anni, siamo sempre capaci, nonostante tutto, di cavarcela in situazioni complesse. Come posso dimenticare i momenti in Africa in cui abbiamo inventato dal nulla e creativamente delle soluzioni adatte ad un contesto difficile. Ricordo ad esempio quando abbiamo attivato, in periodo di carestia, attività di lavoro socialmente utile per i nostri beneficiarli dove l’emergenza era sempre stata gestita semplicemente con la consegna di sacchi di farina. In apparenza piccole cose ma che hanno fatto la differenza in termini di responsabilità e di approccio. A volte hanno addirittura cambiato e migliorato progetti. Chissà quante altre situazioni i miei amici e colleghi cooperanti potrebbero raccontare. Ma è un tesoro spesso nascosto e mi pare che si sprechi l’alto potenziale che c’è.

L’approccio coaching l’ho sentito nello stesso tempo capace di valorizzare ciò che si fa e capace di potenziare ciò che si dovrà fare a partire da ciò che si è.

Non mancano i valori e la dedizione nel mondo della cooperazione internazionale. Manca un luogo dove dirselo e dove riflettere su come mettere a frutto ciò che si sente e ciò che si è imparato trovando così nuove risposte e nuove soluzioni per il futuro.

Il coaching per me è un’arte potente e affascinante che sono sicuro darà ottimi frutti agli operatori della cooperazione.

 

 

 

Digitale non vuol dire green; e se smettessimo di mandare mail?

Nella Giornata Mondiale della terra, mentre infuria il dibattito sul raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e dopo un anno che innumerevoli attività si sono convertite online a causa della pandemia, è importante ribadire che non basta essere digitali per non inquinare. Qualunque azione facciamo online, una ricerca, un acquisto, un post sui social network richiede che ci siano dei server, dislocati da qualche parte, che la elaborano. All’energia consumata dai dispositivi connessi (quali PC e smartphone) si aggiunge dunque quella di server, data center, infrastrutture di comunicazione e relativi sottosistemi. Si stima che entro il 2040 l’impatto del settore ICT sulle emissioni inquinanti arriverà a pesare per il 14%

di Silvia Pochettino

Se ognuno di noi decidesse di inviare anche solo una mail in meno, risparmieremmo circa 16.433 tonnellate di carbonio all’anno. Per fare una stima orientativa, sarebbero circa 81 mila voli aerei tra Roma e Londra. Lo rivelava già cinque anni fa uno studio dell’Agenzia francese per l’ambiente, riportato da Repubblica. Un messaggio da 1 megabyte emette 19 grammi di CO2, in pratica 8 mail inquinano come un km in auto. E di mail inutili ne mandiamo a bizzeffe! Secondo uno studio commissionato da Ovo Energy solo in Inghilterra si inviano ogni anno oltre 64 milioni di email inutili.

La cosa diventa ancora più inquietante se, andando oltre la semplice mail, cominciamo a considerare sistemi complessi come quelli di Intelligenza Artificiale (IA), che ormai pervadono gran parte della nostra vita quotidiana. Se da una parte gli algoritmi di IA possono contribuire in diversi modi a diminuire l’impatto inquinante sul pianeta,  dall’altra i ricercatori dell’Università del Massachusetts, Amherst, eseguendo una valutazione sull’energia necessaria ad “addestrare” gli algoritmi di Deep Learning in NLP ( comprensione ed elaborazione del linguaggio naturale, utilizzati ad esempio per la traduzione automatica da una lingua all’altra), hanno rilevato che si arriva ad emettere 284 tonnellate di anidride carbonica equivalente,  emissioni pari a quasi cinque volte quelle della vita media di un’auto americana, produzione inclusa.

Secondo lo studio “Assessing ICT global emissions footprint”, pubblicato sulla rivista Journal of Cleaner Production,  l’impatto dell’intero settore delle ICT sulle emissioni globali di gas serra è triplicato in dieci anni;  dal 2007, in cui le ICT contavano per l’1% delle emissioni inquinanti, le proiezioni indicano che entro il 2040 arriverà a pesare per il 14%. Per fare un paragone i mezzi di trasporto pesano sull’ambiente per il 20% e questo dato non è variato in maniera sostanziale nel corso degli ultimi cinquant’anni nonostante l’aumento del traffico (aereo, terrestre e marittimo), a causa di progressi tecnologici. Già oggi le tecnologie dell’informazione e della comunicazione rappresentano l’8-10% del consumo di elettricità in Europa e sono responsabili di emissioni di anidride carbonica pari a circa un 4% circa.

Stiamo parlando sempre di percentuali ridotte se confrontiamo l’impatto dell’industria pesante e della maggioranza dei servizi, tuttavia, difronte alla crescita esponenziale che stiamo vivendo nell’utilizzo delle tecnologie digitali  non si può non porsi seriamente il problema.  Secondo Greenpeace, che monitoa il settore IT dal 2010 , solo il 20% delle aziende si è impegnato a investire in energie rinnovabili, ed è particolarmente preoccupante l’assenza di politiche green in alcuni Paesi del mondo quali Cina, Taiwan e Corea del Sud.

Forse allora dovremo iniziare a interrogarci non solo quando prendiamo l’aereo per andare in vacanza o l’auto per andare al lavoro tutti i giorni, ma anche quando mandiamo quella mail di troppo al collega o pubblichiamo l’ennesimo post sui social per polemizzare su un caso di attualità o raccontare quello che abbiamo mangiato? Forse sì, e potrebbe essere molto più difficile del previsto

 

“Make, unmake, remake”: il motto del progetto Agbogbloshie Makerspace Platform

Quest’anno vincitrice del premio dell’Innovazione Urbana di Le Monde, nella categoria “Partecipazione cittadina”, l’Agbogbloshie Makerspace Platform è un progetto innovativo all’insegna dell’economia circolare che ha trasformato la più grande discarica di rifiuti elettronici al mondo in una risorsa per lo sviluppo dell’economia locale del Ghana. 

Di Anna Filippucci

Agbogbloshie è la più grande discarica di rifiuti elettronici al mondo. Essa si trova in un quartiere periferico di Accra, in Ghana. Computer, telefoni, elettrodomestici… tutti gli scarti tecnologici del mondo, frutto dell’obsolescenza programmata, si ritrovano qui, accatastati in questo luogo fuori dal tempo e spaventoso. Luogo che, non a caso, è stato soprannominato “Sodoma e Gomorra”.

Old Fadama è il nome dello slum che sorge negli immediati pressi di questa discarica. Gli abitanti della baraccopoli sono specializzati da generazioni nel recupero dei rifiuti di Agbogbloshie. Da decenni ormai, si tramandano informazioni sulle componenti metalliche preziose che possono essere isolate nei singoli oggetti e rivendute e/o riutilizzate per costruire altri apparecchi elettronici. La discarica è una delle cosiddette urban mining – miniere urbane – più sfruttate della terra: riciclare è la parola d’ordine. Allo stesso tempo, vi è un enorme problema di inquinamento correlato: i rifiuti infatti, per essere trattati, vengono sovente bruciati e i loro resti in parte dispersi nell’ambiente, nel terreno oppure trasformati in nubi tossiche, altamente dannose per la salute. 

Ciò che tuttavia appare davvero impressionante è l’expertise sviluppata dagli abitanti di questo luogo fuori dal comune: conoscere esattamente tutte le componenti di ogni oggetto elettronico costituisce un vantaggio enorme e sovente l’unica fonte di reddito per intere famiglie. L’approccio learning by doing è l’unico conosciuto e applicato: smontando, bruciando, riassemblando oggetti, gli emarginati della società hanno appreso come sfruttare al massimo qualsiasi scarto

Dall’osservazione di questa situazione prende vita il progetto dell’Agbogbloshie Makerspace Platform (AMP). Fondata nel 2013 da DK Osseo-Asare e Yasmine Abbas, entrambi laureati ad Harvard ed esperti di design, e aperta a tutti gli studenti di arte, tecnologia, scienze, ingegneria, chimica e matematica, questa piattaforma, digitale e fisica allo stesso tempo, ha permesso uno scambio di competenze e conoscenze inedito

Studenti, studiosi, insegnanti, abitanti della baraccopoli, tutti quanti hanno avuto la possibilità di contribuire alla realizzazione di un manuale open source grassroots e partecipativo: una lista di tecniche, saperi e conoscenze teoriche che permettano di riciclare i rifiuti in maniera rispettosa dell’ambiente e della salute. L’interazione tra persone provenienti da background completamente diversi ha permesso un’ibridazione di saperi tecnici, teorici e pratici e ha portato alla realizzazione anche di prodotti altamente tecnologici (dalle stampanti 3D ai droni!). 

Il processo è ancora in corso, ma esso ha finora coinvolto oltre 1500 persone, di cui 750 provenienti dall’ambiente universitario e altrettanti dalle baraccopoli di Agbogbloshie. Il risultato tangibile del progetto è una piattaforma appunto, chiamata dai partecipanti Spacecraft, composta da tre elementi: un chiosco modulare e facilmente trasportabile interamente creato con materiali riciclati e utilizzabile come laboratorio e punto vendita, delle cassette degli attrezzi personalizzabili in base a che cosa si vuole costruire e con quali materie prime e infine una app commerciale. Quest’ultima costituisce un incentivo importante per gli artigiani delle baraccopoli per rendere i loro prodotti più green: l’espansione del business al di fuori del quartiere, li spinge infatti a innovare maggiormente l’offerta. 

Il successo del progetto è dato innanzitutto dal fatto di saper mettere in relazione efficacemente domanda e offerta di prodotti finiti, ma anche di materie prime e saperi, il tutto in maniera innovativa e all’insegna dell’economia circolare. In secondo luogo, ed è così che si conclude la TED talk del co-fondatore di AMP, la piattaforma costituisce un esempio virtuoso di come l’Africa potrebbe guardare al futuro; soltanto costruendo un network efficace tra tutte le proposte innovative e grassroots già esistenti nel continente (dagli hub tecnologici, agli incubatori di start-up, ai saperi tradizionali e molto altro ancora), che travalichi ogni confine politico e nazionale, si può pensare a uno sviluppo co-partecipato, inclusivo e duraturo per l’Africa

Il Libro Bianco sull’Innovazione Sociale- come progettare, sviluppare e far crescere l’Innovazione Sociale

“Il termine innovazione sociale può avere molti sensi. Infatti può significare semplicemente un’ innovazione socializzata che crea nuovi saperi tecnici o organizzativi; ma anche un’ innovazione sociale, ossia un approccio pragmatico ai problemi sociali, che applica tecniche manageriali per risolvere problemi nel presente, senza badare molto all’orizzonte ideologico o alla correttezza politica. Innovazione sociale implica anche l’impiego di nuove tecnologie e soprattutto di nuove forme organizzative, dove l’organizzazione dal basso convive con una ‘socialità di rete’ e dove le stesse relazioni sociali diventano strumenti da mobilizzare nell’attività imprenditoriale; dove nel bene e nel male le differenze fra vita lavorativa, vita politica e vita privata tendono a scomparire.

In questo senso innovazione sociale comporta un nuovo modo di organizzare l’attività umana, nel lavoro come nell’impegno politico, un modo dove – per usare la terminologia di Hannah Arendt – le potenzialità della vita vengono messe all’opera in un impegno di natura etica e non morale. Quindi, e soprattutto, l’innovazione sociale è un candidato promettente per una necessaria riorganizzazione delle relazioni produttive e sociali.

Noi siamo in un periodo di crisi e di stasi. Questa crisi si deve in gran parte alla nostra incapacità di creare una struttura sociale adatta a sfruttare la produttività delle tecnologie d’ informazione e comunicazione. E’ dagli anni settanta che le fabbriche sono robotizzate, ma producono sempre le stesse cose, ed è dagli anni novanta che abbiamo internet, ma rimane in gran parte un medium pubblicitario. Siamo ancora dentro al paradigma consumistico, quello nato negli anni trenta come risposta a una crisi, essenzialmente a una crisi di sovrapproduzione industriale.

Ma la nostra crisi è un’altra crisi: il paradigma consumistico non solo non può contenere la nuova produttività che risulta da processi produttivi computerizzati, ma non è più sostenibile da un punto di vista energetico e ambientale. Per andare avanti dobbiamo ripensare tutto in modo radicale– non possiamo aspettarci che il futuro sarà come il passato: dobbiamo ripensare i nostri sistemi di produzione materiale in un modo che integra il riciclo e il recupero come un elemento centrale, dobbiamo ripensare i nostri sistemi di trasporto, di produzione energetica, di produzione e consumo agroalimentare etc. E’ improbabile che le nuove idee che potranno guidarci in questa impresa vengano dall’alto, dai politici, dagli intellettuali, dai partiti, dalla chiesa… L’innovazione sociale ci mostra una altra strada basata su una moltitudine di iniziative dal basso, di esperimenti quotidiani.

Autore:  Robin Murray, Julie Caulier Grice, Geoff Mulgan.

Edizione Italiana: A cura di Alex Giordano e Adam Arvidsson

Anno: 2011

Lingua: Italiana

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