Stampare il cibo in 3D per sconfiggere la fame nel mondo

«Il cibo stampato in 3D potrebbe porre fine alla fame nel mondo» affermava nel 2013 Anjan Contractor, ingegnere meccanico alla Systems and Materials Research Corporation. Quel giorno non è ancora arrivato, ma la stampa in 3D degli alimenti sta facendo passi da gigante. Interessa alla NASA per trovare soluzioni efficienti alla gestione del problema del cibo nello spazio ed è spinta dalla crescente richiesta di innovazione e sperimentazione in cucina.

di Luca Indemini

Un report di BIS Research prevede che il mercato globale delle stampa 3D di alimenti raggiungerà i 525,6 milioni di dollari nel 2023, segnando una crescita annua di circa il 46 per cento. Questa crescita esponenziale è motivata dalla consapevolezza degli innovatori alimentari sulla necessità di elevare i sistemi di produzione gastronomica, per rispondere tanto alle esigenze dei consumatori quanto a quelle globali.

È lecito pensare, dunque, che in un futuro non troppo lontano, gli alimenti stampati in 3D possano avere un impatto significativo nella lotta alla fame nel mondo.

Partendo da alimenti abbondanti e facilmente reperibili, come le alghe, che sono ricche di proteine e antiossidanti, è possibile produrre quantità di cibo sufficienti a rispondere alle necessità di tutti gli abitanti del pianeta.

Come si stampano in 3D gli alimenti

https://www.youtube.com/watch?v=M3ETEuiXfhc
Le potenzialità della stampa alimentare 3D raccontate da Campden BRI

La stampante 3D è la tecnologia perfetta per la produzione alimentare, perché consente di produrre costruzioni tridimensionali con geometrie complesse, trame complesse, valori nutrizionali aumentati e sapori realistici. Certo, la stampa di cibo differisce da quella con materiali tecnici per diversi aspetti: gli alimenti sono composti da diversi ingredienti, inoltre i materiali sono particolarmente complessi e gli ingredienti alimentari interagiscono tra loro chimicamente. Infine, la stampa di alimenti comporta la cottura durante la stampa.

Le tecnologie utilizzate per stampare cibo in 3D includono sinterizzazione selettiva, la fusione ad aria calda, il legame liquido e l’estrusione hot-melt. Recentemente, in Corea del Sud è stata sviluppata una piattaforma di stampa 3D che utilizza un processo di deposito fuso per creare prodotti alimentari con microstrutture che replicano le proprietà fisiche e la trama in nanoscala del cibo reale.

Di cosa è fatto il cibo stampato in 3D

I materiali con cui viene stampato il cibo in 3D, sono gli ingredienti normali del cibo: acqua, olio, farina, burro, uova. L’“inchiostro alimentare” viene depositato da un ugello che segue il progetto di un modello CAD. L’inchiostro deve avere le giuste consistenza e viscosità per essere estruso in modo uniforme dall’ugello e mantenere la sua forma dopo essere stato depositato. Le stampanti multi-ugello permettono una maggiore complessità di progettazione: ad esempio, consentono di automatizzare la preparazione di una pizza, depositando in sequenza la pasta, la salsa e il formaggio.

https://www.youtube.com/watch?v=oz6D1FXwuvA&feature=emb_title
Uno dei primi casi italiani è la pasta 3D di Barilla presentata a Expo2015

La biostampanti possono stampare in 3D strati di cellule animali viventi necessarie per creare la carne. Modern Meadow permette di stampare carne in 3D senza uccidere gli animali. Il processo inizia con un prelievo di cellula staminali da una mucca attraverso una biopsia. Le cellule vengono poi stimolate a produrre cellule muscolari, che sono poi depositate in più strati su una superficie special, da una biostampante 3D. In questo modo, le cellule si fondono insieme formando tessuto muscolare o carne.

Un elemento chiave negli alimenti stampati in 3D sono la consistenza e la struttura; tema di cui si occupano gli studi del team del dr. Amy Logan al Commonwealth Scientific and Industrial Research Organization a Canberra, in Australia. «I nostri alimenti strutturati saranno basati su cibi reali e preparati con trame, sapori e odori attraenti – spiega Logan dalle pagine di Engineering For Change -. Attraverso la combinazione di modelli di deposizione dei materiali e modelli di cottura tramite laser si possono produrre nuove trame alimentari.»

La “customizzazione” del cibo

Una delle possibilità più interessanti per gli alimenti stampati in 3D è la loro personalizzazione. Gli inchiostri possono essere creati con estrema precisione per dar vita ad alimenti con contenuto nutrizionale specifico per le esigenze individuali di ciascuno.

Inoltre, le trame possono essere modificate per rendere, ad esempio, il cibo più facile da deglutire (è un esempio il caso del cibo stampato in 3D per le case di cura per anziani in Svezia).

Alcuni alimenti, come maiale, pollo, patate, pasta e piselli, vengono cotti e frullati prima di essere estrusi e stampati in forme riconoscibili – si legge sul sito GE. In fase di stampa poi è possibile “customizzare” questi elementi in base alle esigenze del singolo consumatore, renderli visivamente accattivanti e appetitose. In questo senso, come ha rimarcato Hod Lipson della Columbia University, sempre a Engineering for Change, la stampa 3D di alimenti non significa semplicemente produrre alimenti convenzionali con una nuova tecnica: «Si tratta piuttosto di esplorare nuovi alimenti che prima non si potevano produrre. Bisogna sposare la cucina con il software.» Con tette le potenzialità che potranno derivarne. Uno dei casi più recenti è la “cottura a laser” sviluppata proprio alla Columbia University, dal ricercatore Johathan Blutinger.

Siamo ancora all’inizio del percorso. Intanto, nel giugno 2020, Venlo, in Olanda, si appresta ad ospitare la quarta edizione della 3D Food Printing Conference, occasione per fare il punto della situazione su macchinari, progetti e sperimentazioni.

Quando un computer ti cambia la vita: Mayen dal campo profughi ai videogiochi

Lual Mayen è venuto al mondo più volte. La prima 24 anni fa nel Sudan del Sud, da decenni teatro di continui conflitti. La seconda quando, ancora neonato, i suoi genitori lo hanno portato in Uganda, dopo un viaggio a piedi di oltre 350 chilometri. Sopravvissuto alla guerra, si ritrova a dover affrontare la vita di un campo profughi. La terza, quando Lual ha 12 anni e riceve in dono il suo primo laptop, su cui inizia a sviluppare un videogioco. Videogioco che lo porta a un’ennesima rinascita, nei panni di sviluppatore di videogames, in quel di Washington DC.

di Luca Indemini

Quella di Lual Mayen è una storia da film. Ma in epoca digitale, sarà un videogioco a raccontarla. O meglio, a permettere di viverla. Riviverla. E capire cosa vuol dire essere immersi in un conflitto, perdere la casa, parenti e amici, dover fuggire dalla propria terra natia. E vivere in un campo profughi. Proprio in un capo profughi dell’Uganda è iniziata la rivoluzione che ha trasformato la sua vita.

Lual Mayen

Quando il piccolo Lual vide il computer che veniva utilizzato nel centro di registrazione per rifugiati, chiese a sua madre di averne uno. Richiesta che dovette suonare irrealizzabile agli occhi della madre: mancava anche il cibo, come avrebbe potuto acquistare un laptop. Ma poi Daruka, la madre di Lual, pensò che avrebbe potuto rappresentare un’occasione preziosa per suo figlio. Per tre anni si mise a lavorare sodo e cercò di risparmiare ogni centesimo, per raccogliere i 300 dollari necessari ad acquistare il laptop. All’età di 12 anni, Lual ottenne il suo primo computer. Affinché gli sforzi della madre non risultassero vani, ogni giorno Mayen percorreva un cammino di tre ore per raggiungere il più vicino Internet cafe, dove ricaricare il computer, per poi dedicarsi a imparare i primi rudimenti di informatica. Ha fatto tutto da autodidatta, guardando i tutorial che un amico di Kampala gli passava su una chiavetta USB.

Su quel laptop è nata la prima versione di Salaam, il gioco di pace che sta lanciando attraverso la sua compagnia Junub Games. All’epoca del campo profughi voleva realizzare un gioco che fosse in grado di intrattenere i suoi amici, li tenesse uniti e li aiutasse a imparare. Oggi, con Salaam, Mayen sta aprendo la strada nella categoria dei giochi a impatto sociale.

Salaam: dal campo profughi a Washington DC

Lual ha sviluppato la prima versione mobile di Salaam nel 2016, in Uganda. I giocatori dovevano toccare le bombe che cadevano dal cielo per dissolverle in una nuvola di pace prima che arrivassero a terra. Mayen ha pubblicato il link al gioco sulla sua pagina Facebook e subito ha ottenuto una grande attenzione, che in breve tempo gli ha aperto la strada per gli Stati Uniti. Il 3 luglio 2017 si è trasferito a Washington DC per partecipare al programma di accelerazione Peace Tech Labs, quindi ha lanciato Janub Games, con cui ha già rilasciato il gioco da tavola intitolato Wahda (unità).

L’idea di un gioco “vecchio stile” è stata dettata dal fatto che i videogiochi non avrebbero potuto essere giocati da molte persone nel mondo, perché non in possesso dei dispositivi necessari.

Salaam invece punta a un pubblico “digitale”: i 700 milioni di utenti di Facebook Instant Games.

Nella nuova versione di Salaam, i giocatori vestono i panni di un rifugiato che deve fuggire dalle bombe che cadono, trovare l’acqua e guadagnare punti-energia per riuscire a sopravvivere, mentre il paese del protagonista affronta la complessa transizione da un presente di guerra a un futuro di pace. Se il personaggio esaurisce l’energia, viene richiesto al giocatore di acquistare più cibo, acqua e medicine con denaro reale. I fondi così raccolti vengono devoluti in favore di un rifugiato, attraverso le partnership di Junub con numerose ONG.

La campagna su Kickstarter, purtroppo, non ha dato i frutti sperati, ma non mancano i sostenitori, tra cui il giocatore NBA Luol Deng, dei Minnesota Timberwolves. E i riconoscimenti: lo scorso anno, ai The Game Awards, Mayen ha ottenuto il Global Gaming Citizen, riconoscimento riservato a chi cerca di cambiare il mondo con i videogame.

GivePower: un sistema a energia solare per desalinizzare l’acqua di mare

«Voglio fornire acqua a un miliardo di persone nei paesi in via di sviluppo» ha dichiarato a Inverse.com Hayes Barnard, Presidente di GivePower. In sei anni di vita, la Fondazione ha realizzato sistemi di energia solare che forniscono energia alla produzione alimentare, portano l’elettricità nelle scuole o a servizi di salvaguardia del territorio. L’intervento di maggiore impatto, che partendo dalle parole di Hayes sembra dettare la linea per il futuro di GivePower, è l’installazione di un sistema a energia solare per desalinizzare l’acqua di mare a Kiunga, in Kenya.

di Luca Indemini

Oltre due miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile; una su tre fa uso di acqua contaminata o non controllata per lavarsi, cucinare, bere. Lo rivela un recente rapporto dell’UNICEF e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Circa l’80% di queste persone vive in aree rurali dove non esistono infrastrutture di base per poter avere accesso all’acqua o dove l’acqua non è sicura o troppo lontana. GivePower ha deciso di far sua questa sfida e nel 2018 ha installato, lungo le coste della città di Kiunga, in Kenya, il primo impianto di desalinizzazione dell’acqua a energia solare.

La zona di Kiunga non è stata scelta a caso. Il territorio è particolarmente arido e per approvvigionarsi di acqua, per altro sporca e salata, gli abitanti erano costretti ad affrontare un viaggio di un’ora per raggiungere il pozzo più vicino.

La nascita del BLUdrop

Hayes Barnard, ex direttore delle entrate di SolarCity, fusasi con Tesla nel 2016, dopo aver lanciato nel 2013 GiverPower, ha trascorso un anno e mezzo a San Francisco lavorando a quella che ha battezzato «BLUdrop» o «basic life unit», una macchina che fosse in grado di portare acqua potabile ai quei due miliardi di persone che vivono in regioni con scarsità d’acqua. Quando il progetto ha preso forma, si è scelto il Kenya per la prima installazione. L’impianto ha richiesto un investimento di 500 mila dollari e un mese di lavori. La grande sfida degli impianti di desalinizzazione è che richiedono molta energia, rivelandosi troppo costosi e spesso impossibili da alimentare in zone in cui non esistono allacci alla rete elettrica. La soluzione progettata da GivePower è stata il Solar Water Farm. L’impianto utilizza una serie di pannelli fotovoltaici per produrre 50 kilowatt di energia, sei batterie Tesla Powerwall per raggiungere 90 kilowatt di stoccaggio e un sistema di desalinizzazione in grado di trasformare l’acqua di mare o salmastra in acqua potabile. Il risultato finale è un colosso di quasi 400 metri quadrati, in gradi di produrre oltre 50 mila litri di acqua potabile per più di 35 mila persone al giorno.

Yesterday on #WorldWaterDay we celebrated an incredible milestone – the grand opening of water taps in the Kiunga…

Pubblicato da GivePower su Sabato 23 marzo 2019

L’esperienza di Kiunga è stata una preziosa occasione per imparare e migliorare. L’impianto installato in Kenya è atterrato in un container, con le batterie collegate all’esterno, e ci si è resi conto che sarebbe meglio imballare le batterie in un altro container, per garantire maggior protezione e semplificare il trasporto. Inoltre, per il futuro, appare preferibile installare il macchinario all’interno dei centri abitati: a Kiunga è stato necessario aggiungere un condotto di un quarto di miglio per portare l’acqua in città.

Come Barnard ha avuto modo di raccontare a Inverse, oltre al beneficio immediato di disporre di acqua potabile, non sono mancate altre ricadute positive per il territorio e i suoi abitanti: «Una donna ha deciso di aprire un’attività di lavaggio dei vestiti nella sua comunità. E i bambini… tutte le piaghe e le lesioni sui loro corpo stanno scomparendo.» Il mantenimento dell’impianto è relativamente semplice: due filtri necessitano di essere sostituiti una volta al mese, due devono essere sostituiti una volta al trimestre. I livelli di manutenzione sono meno complessi di quelli richiesti per una piscina privata di una casa negli Stati Uniti.

Dopo Kiunga, Colombia e Haiti

Visto il successo dell’impianto di Kiunga, GivePower sta raccogliendo fondi per poterne costruirne altri in zone interessate da periodi prolungati di siccità, per garantire acqua potabile a un numero sempre maggiore di persone. Le prossime tappe sono Colombia e Haiti, dove l’approvvigionamento di acqua potabile è ancora difficile per molte comunità rurali. Il team prevede una rapida espansione. Barnard stima che un impianto possa generare entrate per circa 80/100 mila dollari all’anno. Questo significa che ogni cinque anni produce le risorse necessarie per realizzare un nuovo impianto. Il desiderio di fornire acqua potabile a un miliardo di persone nei paesi in via di sviluppo sembra destinato a non essere solo un sogno.

La stampa 3D porta in Africa mezzi di produzione accessibili e a costi contenuti

«La stampa 3D è una tecnologia affascinante, che permette di realizzare rapidamente dei prototipi e di creare degli oggetti, senza la necessità di grandi attrezzature industriali. Con la stampa 3D è come se avessi una fabbrica sulla tua scrivania. Credo possa giocare un ruolo importante nello sviluppo dell’economia africana: in Africa abbiamo bisogno di mezzi di produzione accessibili e abbordabili.» Lo spiega Edem Kougnigan, che ha fondato a Lomé, Kalk3D, il primo servizio di stampa 3D su richiesta in Togo e Africa occidentale.

di Luca Indemini

L’avventura di Edem Kougnigan, oggi founder e CEO di Kalk3D, è iniziata nel 2014: «Dopo aver visto un telegiornale su France 2, dove venivano presentate le potenzialità promesse dalla stampa 3D per il futuro dell’industria manifatturiera, ho pensato: in Africa mancano le industrie manifatturiere e questa tecnologia potrebbe fare la differenza e offrire nuove possibilità.» Con studi in Finanza e contabilità, dopo un diploma di maturità scientifica, la strada di Edem non sembrava destinata a incrociare il mondo della tecnologia, «ma, tecnofilo nell’anima, mi sono rapidamente appassionato all’informatica e soprattutto alla modellazione 3D, durante la mia carriera in ingegneria civile nel 2012. Cercavo un modo per trasformare i disegni e i progetti in oggetti reali e la stampa 3D permette di farlo molto bene. Dopo aver scoperto nel 2014 i movimenti Open Source e RepRap, ho deciso di risparmiare per acquistare un kit di stampa 3D da montare.» Ci sono voluti due anni per mettere da parte i quasi mille euro necessari per acquistare il kit originale Prusa i3 Mk2. Era il 2016.

Edem punta a fare le cose in grande, sul sito di Kalk3D, sotto il titolo “Notre Mission” si legge: “La nostra missione è democratizzare la stampa 3D per tutti i settori in cui può davvero fare la differenza”. Ma la storia tra il Togo e la stampa 3D e il tentativo di renderla a portata di tutti ha radici più “antiche”.

La stampante 3D costruita con i rottami elettronici

Afate Gnikou con la sua stampante 3D realizzata utilizzando rifiuti elettronici

Nel 2013 Afate Gnikou ha costruito una stampante 3D funzionante, interamente assemblata con rifiuti elettronici. Il motore è stata la partecipazione a un concorso organizzato dall’incubatore togolese WoeLab, che invitava a costruire la prima stampante 3D del Togo. Successivamente Gnikou ha continuato a sviluppare il suo prodotto, ricevendo alcuni riconoscimenti a livello internazionale.

La vera difficoltà è però trovare partner e sostenitori che lo aiutino a sviluppare il suo progetto: realizzare stampanti 3D recuperando rifiuti elettronici e metterle al servizio del contesto africano e delle esigenze locali. Dopo una collaborazione con WoeLab, Gnikou ha avviato un proprio laboratorio ricavato in un piccolo spazio vicino alla sua abitazione. Negli ultimi tempi si sono perse le sue tracce online, ma il suo esempio è stato fonte di ispirazione per altri innovatori, impegnati a trasformare rifiuti elettronici in nuovi prodotti tecnologici: è il caso, ad esempio di Ousia Foli-Bebe, con i suoi ragni robot.

Piccole unità produttive in casa

Anche Edem Kougnigan, con la sua Kalk3D, dedica particolare attenzione alle tematiche ecologiche: ha aderito alla Community di Precious Plastic e, precisa sul sito, “Parte dei filamenti che utilizziamo sono realizzati in plastica riciclata”.

È soprattutto la possibilità di semplificare la produzione di nuovi prodotti e trasferire in casa piccole unità produttive che spinge Edem a sviluppare il suo progetto: «costruire una delle più grandi aziende di stampanti 3d in Africa.» Il 4 settembre 2018 un post su Facebook annuncia: “Kalk3D… ora è lanciato… finalmente abbiamo fatto i primi passi… L’ obiettivo e la visione… mettere in piedi tecnologie accessibili per la trasformazione delle materie prime e la produzione di beni e servizi per l’Africa”.

kalk3d … Now c'est lancé… On vient enfin de faire les premiers pas… L'objectif et la vision … Mettre sur pieds…

Pubblicato da Edem Kouashi Kader Kougnigan su Martedì 4 settembre 2018

E in breve tempo si iniziano a vedere i primi risultati concreti, come racconta Kougnigan: «Posso già parlare di piccole trasformazioni nell’agricoltura nel mio paese, con l’irrigazione goccia a goccia che esegue uno dei miei partner, grazie ai beccucci e ai piccoli pezzi che progetto e produco in piccole serie con le mie stampanti 3D. Inoltre, si inizia a vedere lo sviluppo di macchine a controllo numerico e di robot industriali a basso costo, resi possibili grazie alle stampanti 3d, che producono i componenti utili. Questo permette di automatizzare e accelerare la produzione in diversi settori: dalla carpenteria al tessile, alla lavorazione dei metalli.»

Oggi Kalk3D rivendica il suo ruolo di primo servizio di produzione additiva e prototipazione in Togo e in Africa occidentale.

Dalla scorsa estate ha iniziato a produrre mobili su misura, per tutti i gusti e a fine agosto si è fatto notare al Salone dell’innovazione e della tecnologia di Lomè.

Per il futuro, almeno a breve termine, Edam Kougnigan ha le idee chiare: «La mia ambizione è quella di continuare a lavorare sulle stampanti 3d, migliorando la rapidità e l’efficacia delle macchine. Ed esplorare settori come la stampa 3d in calcestruzzo, per la costruzione più veloce ed efficiente di edifici.»

Co-design for Digital Social Innovation

In che modo l’innovazione digitale può essere uno strumento a servizio delle comunità? In questo dossier, WeMake ci guida alla scoperta della Digital Social Innovation attraverso l’approfondimento della cultura collaborativa dei Makers e dei Fablab.

Metodologie, esempi e casi studio, aiutano a comprendere come l’approccio e le metodologie del movimento maker possano essere utilizzati per realizzare soluzioni scalabili e a basso costo per la cooperazione internazionale.

Le tecniche di coprogettazione proprie di Maker e Fablab trovano ampio spazio anche in ambito educativo. Sono in grado di coinvolgere giovani, studenti e cittadini in processi di apprendimento collaborativo ed esperienziale per ideare e realizzare soluzioni in grado di rispondere efficacemente a bisogni sociali specifici.

“Co-design for Digital Social Innovation” è il terzo di un ciclo di 4 dossier realizzati nell’ambito del progetto Digital Transformation per lo Sviluppo Sostenibile, volti ad approfondire le prospettive della trasformazione digitale nell’ottica di rispondere alle sfide evidenziate dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e dall’Agenda 2030.

Il primo dossier, dedicato al significato e agli impatti della trasformazione digitale, è disponibile qui.

Il secondo dossier, dedicato all’intelligenza artificiale al servizio dell’uomo, è disponibile qui.

#SIAMOTUTTIMIGRANTI

Come raccontare la complessità e l’importanza delle migrazioni attuali coinvolgendo attivamente i giovani? Amici dei popoli ONG, con il suo team di educatori, ci ha provato in due classi dell’ITI Severi e in una classe del Liceo Duca d’Aosta di Padova, nell’ambito del progetto Digital Transformation per lo Sviluppo Sostenibile, cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione Internazionale (AICS).

L’obiettivo che ha guidato le attività è stato creare uno spazio privilegiato alla narrazione, intesa come modalità per affrontare tematiche complesse. Gli esseri umani hanno, infatti, da sempre raccontato storie attraverso modalità di narrazione differenti. Ascoltare racconti, crearne di nuovi, svilupparli, ha il potere di coinvolgere emotivamente chiunque, insegnando e divertendo. Legare la costruzione di un racconto all’uso delle tecnologie digitali, inoltre, offre la possibilità di rielaborare e curare il materiale esistente, per la creazione di visioni nuove, stimolando il pensiero critico. Incentiva poi gli studenti a esplorare e scoprire, oltre che ricordare più efficacemente. Infine, utilizzare strumenti vicini ai ragazzi garantisce assenza di costi e coinvolgimento diretto.

I ragazzi della 4°ID e della 5°MB dell’ITI Severi hanno utilizzato le tecnologie digitali per la creazione di una narrazione nuova e interattiva. I primi incontri sono stati dedicati alla tematica degli obiettivi di sviluppo sostenibile e all’Agenda 2030, intesa come documento che riconosce il contributo delle migrazioni allo sviluppo sostenibile. Da qui è avvenuto il passaggio alla tematica delle migrazioni stesse, analizzando i fattori di spinta, le sfide e i vantaggi, le motivazioni che spingono alcune persone a scegliere la via irregolare per arrivare in Europa. Si è andati avanti comparando i vari passaporti, cercando di capire quali sono i Paesi in cui le persone hanno più difficoltà a viaggiare e in quanti Paesi si può viaggiare senza visto avendo il passaporto italiano.

Infine, per raccontare come il viaggio, lo spostamento, ha sempre accompagnato la storia di ogni Uomo, i ragazzi hanno costruito e proposto diverse storie, votando le migliori e le più semplici da realizzare. Partendo dalla storia della sorella di uno dei ragazzi, e di un ragazzo stesso della classe, si è arrivati a creare un prodotto finito, interattivo e in forma digitale, pensato, realizzato e impreziosito interamente dai ragazzi. I corti sono stati arricchiti con frame realizzati attraverso il programma di animazione Powtoon, e sono state scelte musiche e immagini gratuite prive di copyright. A questi link si possono ascoltare le storie di Maria Vittoria e di Lorenzo:

Con la classe 2°G del Liceo Duca d’Aosta di Padova, invece, l’obiettivo è stato quello di stimolare la curiosità e il pensiero critico sugli obiettivi di sviluppo sostenibile e sulle migrazioni attraverso strumenti digitali accessibili e gratuiti vicini ai ragazzi. Si sono avvicinati agli SDG attraverso il programma Menti.com e lo strumento per la creazione di infografiche online Canva; hanno poi voluto inserire i contenuti di ogni incontro all’interno di un blog, realizzato attraverso Google Sites. Individuando delle storie interessanti, o dei sogni condivisi sul viaggio hanno tracciato i flussi migratori all’interno di una mappa.

Non solo gli studenti, ma anche gli insegnanti si sono sentiti coinvolti, recependo il valore e l’importanza degli strumenti digitali come ausilio efficace anche all’interno della didattica formale.

Foto di copertina di jacqueline macou da Pixabay.


Quando l’economia circolare entra in classe

Prendi un tema di Educazione alla Cittadinanza Globale, abbinalo a un role playing con l’uso di strumenti digitali e inseriscilo nelle scuole secondarie di Roma: questa è la formula del workshop “Economia Circolare e Nuove Tecnologie”, promosso dalla ONG COMI – Cooperazione per il mondo in via di sviluppo – all’interno del progetto Digital Transformation per lo Sviluppo Sostenibile e cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione Internazionale (AICS).

a cura di Consuelo Cammarota (COMI)

Portare in aula l’economia circolare è una scelta formativa estremamente attuale e doverosa: nasce dall’esigenza di educare gli studenti alla sostenibilità, di far comprendere perché un modello economico alternativo è possibile e sempre più necessario, di rispondere alle sfide evidenziate dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030, e di trasmettere competenze digitali che ormai sono fondamentali per trovare lavoro.

Si può dire tutto molto bello. Ma, concretamente: cosa abbiamo fatto, e come abbiamo coinvolto gli studenti?

Abbiamo proposto un workshop dal contenuto estremamente attuale – l’Unione Europea ha approvato le 4 direttive conosciute come “pacchetto dell’economia circolare” l’anno scorso – utilizzando metodi di apprendimento partecipativi per coinvolgere i ragazzi in un gioco di ruolo che permette loro di assimilare i concetti in modo attivo e di elaborare i contenuti attraverso le ICTs.

Tutti gli incontri sono stati svolti nell’aula computer degli istituti coinvolti, e si sono articolati in 3 moduli:

  • il primo dedicato alle problematiche dell’attuale modello economico e ai vantaggi di un sistema circolare;
  • il secondo alla spiegazione di vari programmi open-source (Canva, Easelly, Prezi, Kahoot, Google My Maps, etc.) e alla realizzazione in aula del materiale digitale pertinente;
  • il terzo al vero e proprio gioco di ruolo.

Ogni classe è stata suddivisa in 5/6 gruppi di lavoro e a ogni gruppo di lavoro è stato assegnato un ruolo specifico da interpretare (dirigente della Apple, dirigente filiale italiana McDonald’s, attivista Greenpeace, dirigente azienda di elettrodomestici, consumatore “frettoloso” e critico, etc.) simulando una vera e propria indagine conoscitiva del Parlamento italiano.

L’obiettivo del gioco, era quello di convincere i parlamentari (impersonati dai docenti e dai formatori) a redigere una proposta di legge sull’economia circolare che fosse in linea con gli interessi economici e sociali del ruolo assegnato. Come? Attraverso una presentazione di 5 minuti per gruppo, supportata da dati e argomentazioni valide e utilizzando un supporto audiovisivo, che non fosse un semplice PowerPoint ma una presentazione interattiva, convincente, arricchita da infografiche e video

Per calarsi nei vari personaggi, i ragazzi hanno interiorizzato concetti chiave come il cambiamento climatico o l’obsolescenza programmata e, allo stesso tempo, hanno acquisito competenze digitali e comunicative per trasmettere le informazioni in maniera efficace e con un certo impatto visivo (infografiche, video, presentazioni e mappe interattive).

Come contenitore del materiale didattico usato in aula e delle presentazioni realizzate, è stato inoltre creato un Google Sites assieme agli studenti delle due scuole superiori ISPOA Tor Carbone e Convitto Vittorio Emanuele.

“Ci sono tante cose che ci fanno male eppure le facciamo lo stesso”, così diceva Aldo Fabrizi nel ruolo di Don Pietro Pellegrini nel celebre film Roma città aperta. Ci sono tante cose che ci fanno male, e dobbiamo cambiare il modo di farle: questo è il messaggio fondamentale che i ragazzi hanno appreso.

Photo credits: Pexels


Siamo fatti della stessa sostanza

Aumentare la parità di genere è uno degli obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 ed è la tematica sulla quale si sono concentrati numerosi workshop promossi dall’associazione ASPEm – Associazione Solidarietà Paesi Emergenti – di Cantù (CO) nell’ambito del progetto Digital Transformation per lo Sviluppo Sostenibile.

Le attività sono state sviluppate con gruppi giovanili del territorio comasco che si sono dimostrati interessati e sensibili all’argomento e che, attraverso alcuni stimoli proposti dagli operatori e attraverso la metodologia partecipata dell’’Open Space Technology, hanno avviato confronti e dibattiti su che cosa sia veramente la parità di genere e su come possa essere garantita tramite attitudini e gesti quotidiani.

I ragazzi e le ragazze hanno approfondito alcuni temi come la situazione nel mondo del lavoro e le tipologie di giochi “consigliate” per maschi e femmine, in cui la parità non risulta essere sempre rispettata e tutelata.

Attraverso l’utilizzo di tecniche artistiche quali il collage e l’uso di applicazioni e programmi digitali (tra cui Sketch, Paint 3D, Photo Editor e Photoshop) e guidati dal supporto dell’illustratrice canturina Michela Moscatelli, in arte Micilicis, sono state create immagini di denuncia sociale e di promozione di buone pratiche.

L’obiettivo del lavoro è stato quello di portare alla luce, raccontare, descrivere e documentare una situazione a forte impatto sociale, per cercare di sensibilizzare, far riflettere e infine portare a un cambiamento nella società.

Le immagini realizzate dai partecipanti contengono critica, provocazione ed ironia, puntano il dito, nascono con l’intenzione di indagare e approfondire alcuni meccanismi sociali che spesso è complesso rendere evidenti e accettare. Hanno lo scopo di colpire direttamente la sensibilità degli individui con un grande impatto emotivo.

L’uso innovativo degli strumenti digitali ha permesso ai giovani partecipanti di affrontare la tematica della parità di genere mettendo in luce certi aspetti di cui spesso si ha il “sentore”, ma che si evita di analizzare nel dettaglio e di affermare con creatività che tutti, donne e uomini, “siamo fatti della stessa sostanza”.



Photo credit: le immagini presenti nell’articolo sono state create dai giovani che hanno partecipato ai workshop.


Digging deeper

Conoscere i molteplici aspetti del fenomeno migratorio, acquisendo competenze tecniche, al fine di indagare la realtà e, allo stesso tempo, essere in grado di comunicare le informazioni raccolte in maniera sistematica e puntuale, è questo l’obiettivo del lavoro svolto dalle classi 2^A e 2^N del Liceo Laura Bassi di Bologna, grazie al supporto del team di educatori di Amici dei Popoli ONG.

Il percorso realizzato ha portato ragazzi e ragazze a riflettere in primo luogo, su quelli che sono stereotipi e pregiudizi più comuni riguardo alle migrazioni e in seguito, ad approfondire i temi emersi attraverso un’attività di ricerca.

Perché le persone decidono di partire? Quali sono i fattori che concorrono alla costruzione di un progetto migratorio? Che significato può assumere questo tipo di viaggio in termini di aspettative, desideri, pericoli, opportunità e diritti? Queste le domande che gli studenti e le studentesse si sono posti e alle quali hanno in un primo momento cercato di dare delle risposte, partendo dalla propria esperienza, esprimendo le proprie opinioni. Le discussioni sono state stimolate avvalendosi di strumenti digitali quali ad esempio Kahoot, una piattaforma per la presentazione di quiz interattivi che consente di utilizzare gli smartphone come pulsantiere.

È stato in seguito proposto agli studenti e alle studentesse di contestualizzare quanto emerso scegliendo di analizzare il caso della Nigeria, Paese che nonostante il periodo di crescita, sia da un punto di vista economico che in termini di fermento culturale, conta un’altissima percentuale di migranti. Partendo dall’approfondimento di temi quali la dicotomia crescita/sviluppo, e la eventuale correlazione tra povertà e migrazione, gli studenti hanno compiuto un lavoro di ricerca analizzando dati inerenti alla situazione socio/economica della Nigeria, sistematizzando quanto emerso attraverso la costruzione di infografiche con l’ausilio di Canva, un sito web di graphic-design semplificato. I contenuti creati da ogni ragazzo sono stati poi condivisi sulla piattaforma Google Drive di classe, creata appositamente al fine di condividere il materiale necessario, scambiare informazioni e suggerimenti riguardo ai lavori realizzati sia tra studenti che tra studenti e insegnante.

Infine, i ragazzi e le ragazze hanno indossato a tutti gli effetti i panni dei ricercatori, strutturando un questionario volto ad indagare percezioni e sentimenti della comunità riguardo al fenomeno migratorio. Individuato l’obiettivo della ricerca e il target di riferimento, hanno poi definito le domande, strutturato il questionario utilizzando lo strumento Moduli di Google e diffuso lo stesso ai propri contatti, amici e familiari.

I ragazzi e le ragazze hanno accolto con entusiasmo la possibilità di cimentarsi in prima persona, sperimentando metodologie partecipative attraverso l’utilizzo di strumenti digitali. È stato per loro interessante scoprire nuovi modi, semplici ed efficaci, di utilizzare strumenti di uso quotidiano come ad esempio uno smartphone per scopi didattici e professionali. Si sono sentiti protagonisti, capaci, attraverso lavori di gruppo e la creazione di spazi di condivisione di andare in profondità ampliando il proprio punto di vista sulla base di uno studio accurato del fenomeno migratorio a 360°.


Lo smartphone per guardare la città

Come usi il tuo cellulare?

Cosa ti piace della tua città e che cosa vorresti migliorare?

Queste le domande a cui hanno risposto i ragazzi della scuola secondaria di Rovellasca (CO), con i quali l’associazione ASPEm – Associazione Solidarietà Paesi Emergenti – di Cantù (CO) ha realizzato il workshop digitale “Migliora la tua città”.

Il laboratorio, realizzato nell’ambito del progetto Digital Transformation per lo Sviluppo Sostenibile, era aperto a gruppi eterogenei composti da alunni di diverse classi che hanno aderito volontariamente alle attività proposte.

Questa volontà di partecipazione ha trovato riscontro nell’attivazione delle ragazze e dei ragazzi che con impegno hanno seguito gli incontri dedicati all’uso consapevole dello smartphone, al fotoreportage come strumento di analisi e ricerca e all’osservazione critica della città in relazione agli obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030.

“Siamo andati in giro per il paese a fotografare dei paesaggi che magari non avevo mai notato nello specifico…”

La tecnica della fotografia digitale è stata approfondita e per i giovani partecipanti è diventata uno strumento per acquisire consapevolezza del proprio territorio, inteso come insieme di persone e servizi, e per diventare cittadini attivi. Il telefono cellulare ha ora qualche funzione in più e si trasforma in un oggetto con cui guardare la città, evidenziarne i dettagli e immortalarne gli elementi migliorabili. Un occhio in più sul mondo con il quale inquadrare e analizzare l’ambiente circostante.

“… poi ho scoperto che per fare foto belle si deve posizionare il soggetto non al
centro, ma in alcuni punti di forza.”

In seguito al workshop, gli alunni hanno proposto di sottoporre le loro osservazioni alla scuola e all’amministrazione comunale, con la speranza e l’impegno di rendere più accogliente e sostenibile la città in cui stanno crescendo e acquisendo consapevolezza del proprio ruolo di membro di una comunità.