I primi 5 passi per orientarsi nella cooperazione internazionale

Di Anna Filippucci 

Chi si affaccia per la prima volta al mondo della cooperazione internazionale si sente sovente perduto: spesso non è chiara la struttura organizzativa del settore, non si conoscono le differenze tra gli enti che vi operano, né le abilità e le conoscenze richieste per ricoprire una posizione professionale. Da circa un anno abbiamo iniziato a offrire, con un notevole successo, un servizio di mentoring per chi si avvicina a questo universo lavorativo. Ma a cosa serve il mentoring? Ne abbiamo parlato con Diego Battistessa, esperto di Cooperazione e Diritti Umani e mentor del percorso Lavorare nella Cooperazione Internazionale.

Ecco i consigli di Diego per farsi strada tra questi interrogativi

  • Darsi le basi necessarie per porsi le domande giuste.

Molto spesso le domande che ci si pone avvicinandosi al mondo della cooperazione internazionale sono viziate da una mancanza di conoscenza profonda del settore, della sua architettura complessa e dei profili professionali richiesti. 

Il risultato è che le domande non risultano realistiche, sono generiche o addirittura controproducenti. 

Solo partendo dalla consapevolezza che occorre farsi le domande giuste si può cominciare ad immergersi in questo mondo. Il mentoring permette appunto di svolgere questa fondamentale operazione preliminare. 

  • Realizzare una mappatura delle organizzazioni. 

Il mondo della cooperazione è complesso. Il settore lavorativo è enorme e diversificato al suo interno: realizzare una mappa degli attori, significa iniziare ad orientarsi.

Gli attori sono molteplici: dalle organizzazioni multilaterali, alle università, le aziende, le ong agli enti del terzo settore in generale. E di questi ultimi occorre conoscere chiaramente le caratteristiche, gli obiettivi e la funzione (sono multimandato, o monomandato? In quali contesti specifici operano?). 

  • Riuscire a capire e focalizzare quali sono i profili professionali spendibili all’interno del settore. 

A quale profilo devo aspirare per raggiungere il mio obiettivo? A seconda che si voglia lavorare in contesti di emergenza, oppure nel settore migrazioni/accoglienza, o ancora in progetti di sviluppo specifici, occorrono conoscenze e competenze ogni volta diverse e specializzate. 

Tutte le esperienze pregresse sono utili, non esiste un titolo di studio specifico o una sola professionalità adatta alla cooperazione internazionale: occorre però saperle ottimizzare verso uno dei tanti profili professionali di questo settore. In questo caso, il mentoring permette di fare il punto sugli interessi e le capacità di ognuno per capire quale profilo professionale sia il più adeguato. 

  • Capire come creare un vero e proprio piano di sviluppo di carriera che prenda in considerazione aspettative, ambizioni, stato attuale delle cose, punti di miglioramento e possibili problematiche a corto breve termine nello sviluppo della carriera prescelta.

Questo aspetto passa per una visione realistica degli elementi: non significa non essere ambiziosi, ma vuol dire che, insieme al mentor, si svolge una discussione reale sulle potenzialità attuali per capire quali sono i punti di forza e i miglioramenti possibili. E’ possibile essere la versione migliore di noi stessi solo ed esclusivamente se si raggiunge una forte consapevolezza di tutti questi elementi.

  • Orientamento verso le diverse formazioni, più o meno lunghe, universitarie o no, in che lingua, dove.

Ultimo punto, ma non per importanza. Occorre svolgere un vero e proprio lavoro di orientamento. Le formazioni multidisciplinari offerte per entrare e approfondire una posizione professionale nel mondo della cooperazione internazionale sono moltissime! Con l’aiuto del mentor, è possibile esaminare le diverse opzioni e valutare il percorso più adatto in base agli obiettivi e gli scopi prefissi e il raggiungimento degli obiettivi di carriera di ciascuno. 

Design Thinking e Data Visualization come risorse chiave per innovare la Cooperazione allo Sviluppo

Design Thinking per l’Innovazione Sociale e Data Visualization per il Bilancio Sociale: strumenti e metodologie innovative al servizio del mondo della cooperazione. Vuoi saperne qualcosa in più? Leggi l’intervista ai docenti e scopri il corso che fa per te!

Di Anna Filippucci

Innovare strumenti e metodi della cooperazione internazionale è una sfida ormai improrogabile. Con i corsi di formazione e i progetti che portiamo avanti, noi di Ong 2.0 cerchiamo di rispondere a quest’esigenza, contribuendo alla diffusione di nuovi approcci alla progettazione.

Sulla scia di quest’impegno condiviso, torna anche quest’anno il programma Innovazione per lo Sviluppo cui abbiamo contribuito realizzando 4 nuovi percorsi formativi articolati e completi, in collaborazione con Techsoup Italia. Si tratta di programmi dedicati agli operatori della cooperazione internazionale, ma adatti anche a chi vuole acquisire e mettere in pratica metodologie e strumenti innovativi nel sociale. 

Da due settimane ormai, sono aperte le candidature per i primi due corsi in partenza: Design Thinking per l’Innovazione Sociale e Data Visualization per il Bilancio Sociale.

Per introdurre i temi e i protagonisti dei due percorsi abbiamo deciso di intervistare Azzurra Spirito e Giovanni Pierantoni, rispettivamente docenti di Design Thinking e Data Visualization. 

  • Come e perchè ti sei inizialmente interessato/a al tema oggetto del tuo corso?

Azzurra: Nella mia pratica mi sono sempre occupata di abilitare le comunità ad agire per il bene comune. Inizialmente mi sono concentrata su comunità minoritarie e seconde generazioni, recentemente sono arrivata invece a concentrarmi su sviluppo di modelli e policy. Ho sperimentato moltissimi strumenti a tal fine, da forme innovative di costruzione narrativa fino alla progettazione sociale. 

La domanda ricorrente per me era “cosa serve realmente alle comunità per cui stavo progettando?”, con l’urgenza di attivarne le risorse nello sviluppare soluzioni realmente rispondenti alle loro esigenze e capaci di evolvere autonomamente. Il framework offerto dal design thinking e la sua permeabilità ad altri approcci mi ha mostrato come sia possibile raggiungere questi obiettivi, in ambiti e territori molto diversi.

Giovanni: Mi occupo di progettazione da oltre 15 anni. Una buona progettazione non esiste senza un attento e profondo studio del mondo in cui si vive e si opera. Parlando di design di prodotto, ad esempio, è impossibile fare un nuovo prodotto senza avere studiato nel dettaglio tutti i competitors, i rispettivi prodotti, le tecniche produttive, le campagne pubblicitarie, etc. Per fare questo, e va fatto molto bene, c’è bisogno di raccogliere tanti dati e informazioni di varia natura, e poi, in seconda istanza bisogna elaborare tutti i dati e renderli oggettivi e ben comprensibili a tutto il team. Quindi, concludendo, l’interesse nasce da una esigenza di comunicare nel modo più efficace importanti moli di dati.

  • Qual è il valore aggiunto che questo corso dovrebbe fornire a un cooperante?

Azzurra: Il design thinking è prima di tutto l’occasione di porre in dialogo le proprie competenze con uno specifico mindset, quello dei designer. Su questo aspetto può essere utile un chiarimento: quando parliamo di design non intendiamo quello tradizionalmente inteso come attenzione allo sviluppo di un prodotto, magari in ambito manifatturiero. La moderna concezione vede in questa professione la capacità di abilitare un sistema relazionale desiderato: stimolandolo e infrastrutturandolo attraverso comunicazione, prodotti e servizi. Questo corso assume quindi valore per chi opera nella cooperazione allo sviluppo in quanto offre la possibilità di acquisire strumenti di facile utilizzo, che allenino a queste competenze, e metodi/pratiche facilmente condivisibili con il proprio team e stakeholder. In particolar modo perché focalizzato rispetto all’Innovazione Sociale, una categoria che cresce con forza per la capacità di connettere esperienze diverse: riuscire ad acquisire il linguaggio che renda evidente questa relazione è davvero prezioso per chi opera in questa direzione e spesso fatica a renderlo riconoscibile.

Un testo fondamentale per approfondire e comprendere meglio il tema dell’Innovazione Sociale è il Libro Bianco Per l’Innovazione Sociale, di cui consiglio fortemente la lettura!

Giovanni: Prima di tutto una coscienza diversa del proprio lavoro. Il rischio che noi tutti corriamo è di dare per scontato e/o trattare come prassi il nostro lavoro, in realtà, ogni lavoro, è un bene ricco di dati e informazioni. Informazioni che, prima di tutto, bisogna avere coscienza di possedere e poi bisogna poterle condividere con successo al team e a tutte le persone presenti nell’intero processo.

  • Dicci qualcosa in più sulla metodologia del corso: cosa aspetta i partecipanti?

Azzurra: Ong 2.0 e TechSoup, con il supporto di Fondazione Cariplo e Fondazione Compagnia di San Paolo, rendono possibile un’occasione preziosa di formazione dedicata. Il percorso che abbiamo sviluppato permetterà ai partecipanti di acquisire nuove capacità e competenze, strutturate per essere agilmente trasferite al proprio team (anche) attraverso la sperimentazione su un caso concreto. Grazie alla library di video-pillole i partecipanti potranno iniziare a prendere dimestichezza coi concetti base del design thinking e dell’innovazione sociale, esplorando in autonomia i contenuti in funzione delle loro esigenze e disponibilità di tempo. All’avvio del percorso, con il mio supporto, identificheranno il proprio project work e attiveranno il team. Ogni martedì, a partire dal 12 gennaio, si alleneranno nell’uso degli strumenti alternando sessioni online di sperimentazione su casi condivisi ad approfondimenti teorici. Riceveranno feedback sull’avanzamento delle loro applicazione al project work, avendo così l’occasione non solo di acquisire competenze nuove ma di confrontarsi con colleghi attivi in diverse parti del mondo sviluppando una vera e propria comunità di pratica.

Giovanni: Da oltre quattro anni insegno in differenti Università, corsi di varia natura: dalla progettazione industriale, alla storia della grafica e dell’illustrazione, dalla morfologia all’ergonomia; questo fa sì che il metodo che applicherò ha delle forti e consolidate basi universitario/accademiche, nate però dalla pratica e dal lavoro di tutti i giorni. Per questi motivi le lezioni teoriche saranno sempre affiancate ad esempi pratici e nelle sessioni live i partecipanti saranno invitati a presentare i loro casi, di modo da discuterne e parlarne in maniera pragmatica.

Theory of change: progettare il cambiamento

Quando parliamo di terzo settore e di cooperazione internazionale allo sviluppo, la nostra testa ragiona in termini di progetti: di risorse, di attività, infine di obiettivi. I progetti – tra le altre – devono seguire le regole e le linee guida dei donatori. Sempre più spesso, questi ultimi pongono l’accento sull’impatto e sul cambiamento che il progetto che finanziano produrrà nel contesto in cui è realizzato. Questo significa che non basta la progettazione fatta con le migliori intenzioni (ammesso e non concesso che questa fosse sufficiente anche nel passato), ma che i progetti devono dimostrare sempre di più la propria solidità ed efficacia.

Simone Castello e Chiara Maria Lévêque, esperti di Teoria del cambiamento e valutazione, e docenti del corso di formazione Theory of change e valutazione d’impatto, ci hanno parlato di come il terzo settore e la cooperazione internazionale allo sviluppo possono integrare nella propria azione nuovi strumenti di progettazione e valutazione, per aumentare la propria possibilità di efficacia e far fronte alle crescenti richieste dei finanziatori.

Chi è e cosa fa un consulente in Teoria del cambiamento (ToC)?

Iniziamo col dire che il loro lavoro è quello di philanthropy advisor, professione che in Italia sembra piuttosto nuova. Chiara Lévêque (Senior Account Executive di Aragorn) e Simone Castello (Senior Consultant di Albacast, Segretario Generale di Fondazione Mazzola), attraverso il proprio lavoro, hanno contribuito a traghettare e applicare i concetti di ToC e valutazione dell’impatto nel contesto del non-profit, favorendone un consolidamento e una implementazione man mano più estesa.

L’obiettivo di questa professione è quello di migliorare le metodologie con le quali le non-profit si rapportano con i propri finanziatori. Il compito di un consulente è quindi quello di mettere in comunicazione questi due mondi.

“Rispetto ad altri consulenti noi lavoriamo con due target: non-profit e funders. Cerchiamo di capire e di rispondere sia alle esigenze di chi il progetto deve implementarlo, sia a quelle di chi invece deve finanziarlo.”

Ma cos’è la Theory of change nello specifico?

La Teoria del cambiamento non è una novità, ma negli ultimi anni è cresciuto il livello di interesse intorno ad essa. Si tratta di un approccio alla progettazione e alla programmazione che attraverso un processo rigoroso e partecipativo identifica l’obiettivo di impatto che vogliamo generare, come questo cambiamento dovrebbe avvenire e perché è verosimile che si realizzi, evidenziando le evidenze alla base della “teoria” alla luce del contesto e della complessità in cui l’intervento verrà realizzato.

La grossa distinzione dalla progettazione tradizionale è la modalità con cui si procede. Il cammino si fa a ritroso, partendo dall’impatto e ragionando sulle precondizioni necessarie affinché questo si verifichi, precondizioni che dovranno essere prodotte attraverso le azioni progettuali. Non partiamo dalle attività, ma dai cambiamenti che dobbiamo generare per evidenziare necessità, bisogni – e possibili barriere che potrebbero frapporsi.

[…] non appiattendo la strategia sulle azioni, ma mappando i bisogni ai quali il progetto deve rispondere.

Un buon processo di Teoria del cambiamento è in grado non solo di far emergere le criticità di un progetto, ma anche quelle interne all’organizzazione che lo ha redatto. Come sottolineano Simone e Chiara, spesso gli errori progettuali sono un riflesso delle criticità presenti all’interno dell’organizzazione che lo ha scritto. Mappare lo stato dell’arte tramite l’uso della Teoria del cambiamento, primo e imprescindibile passaggio, può essere un buon modo per farle emergere.

Vala la pena sottolinea la sempre più forte richiesta di valutazione di impatto: purtroppo – o per fortuna – non è possibile valutare l’impatto di un intervento se non è chiara la ToC progettuale: quindi, volenti o nolenti, vale la pena fare i conti con questo strumento che, in ogni caso, è sempre più frequentemente richiesto dai finanziatori (fondazioni, imprese, enti governativi) in fase di presentazione delle application.

Applicazioni pratiche

I docenti ci portano un esempio interessante, riguardante un progetto per l’inserimento lavorativo dei Neet. In estrema sintesi, il progetto prevedeva che i tutor contattassero aziende per l’avvio di tirocini di giovani Neet. Durante il processo di ToC, durato un paio di mesi e che ha coinvolto sia l’organizzazione capofila che i suoi principali stakeholder, sono emerse diverse criticità che hanno portato a una solida riprogettazione. In primo luogo, i partner implementatori del progetto non avevano alcuna esperienza nella costruzione e gestione di relazioni con le aziende. Inoltre, era stato dato per scontato che i giovani beneficiari dovessero sviluppare competenze “hard” in ambiti complessi, quali IT, marketing, ecc. Purtroppo, questi ragazzi in realtà mostravano un deficit delle competenze più basilari che rendeva impossibile l’ambizioso obiettivo progettuale; inoltre, ragionando con enti formatori specializzati nell’avvio di tirocini lavorativi, si è riscontrata la necessità di competenze relazionali basilari (soft skills) – quali la capacità di scrivere un cv, le buone abitudini in sede di colloquio, la consapevolezza delle norme quotidiane in contesti lavorativi (es. puntualità), ecc. Queste erano le aree su cui lavorare per far sì che un ente formatore potesse collocare i ragazzi. A causa di una rilevazione superficiale delle competenze in-house, delle abilità dei ragazzi e delle necessità delle aziende (in sostanza, in mancanza di una solida consultazione e comprensione del contesto e degli stakeholder, e quindi delle precondizioni necessarie per raggiungere l’impatto desiderato), l’impostazione progettuale si era dimostrata inadeguata per il raggiungimento degli obiettivi.

Gli stakeholder

L’importanza del relazionarsi con loro è il caposaldo della Teoria del cambiamento. Tuttavia vi sono tre livelli su cui dobbiamo intervenire.

  • Il primo è rappresentato dai beneficiari del progetto. L’ottica partecipativa è fondamentale per capire quali siano i loro bisogni: non solo in un’ottica di ownership, trend in aumento che vede i “beneficiari” non come semplici recipienti ma come stakeholder attivi. Ma anche perché possono aiutarci a capire ostacoli che altrimenti non vedremmo ragionando nella tradizionale ottica lineare (attività – risultati) che spesso comporta la progettazione dall’alto e “a tavolino”. Come si è detto prima parlando di Neet, le loro esigenze erano diverse da quelle immaginate dai progettisti.
  • Il secondo livello è quello delle risorse interne. Se non si dialoga coi partner, non si può sapere se questi siano sulla stessa lunghezza d’onda e se potranno/vorranno fornire un vero valore aggiunto all’iniziativa. E così anche chi dovrebbe remare nella stessa direzione rischia di creare effetti distorsivi più che positivi.
  • L’ultimo livello è rappresentato dai finanziatori. Riuscire a coinvolgere i funders in parte del processo di ToC può dimostrarsi un’ottima occasione per rafforzare la relazione. Da un lato, se il processo viene ben gestito, i finanziatori apprezzeranno il coinvolgimento e la trasparenza dell’organizzazione, pronta a sedersi a un tavolo per discutere – in modalità di partner – obiettivi e difficoltà. Dall’altro, questo comporta anche una responsabilizzazione del finanziatore che non si pone più come soggetto totalmente esterno al progetto, ma diviene parte attiva del processo di sviluppo e, per questo motivo, dimostra di credere nell’iniziativa e di sposarne l’impostazione.

Il corso “Theory of Change e valutazione d’impatto”

Coerentemente con quanto appena detto, Simone Castello e Chiara Lévêque hanno preparato un corso diviso in blocchi, in maniera da affrontare correttamente la materia. I blocchi saranno fondamentalmente tre.

Il primo argomento di grande importanza è quello relativo all’erogazione dei fondi, o meglio agli enti finanziatori e al loro rapporto con le non-profit. Il modo con il quale questi due attori interagiscono è cambiato nel tempo. In generale, si sottolineerà quali sono le modalità che sempre più indirizzano le scelte dei donatori sui progetti da finanziare.

Il secondo blocco invece verterà su argomenti legati in maniera più stretta alla Teoria del Cambiamento, e quindi alla necessità di una valutazione di impatto per conoscere se dalla teoria si è passati effettivamente alla pratica.

In ultimo, verranno presentati diversi metodi per la valutazione dell’impatto, con focus su quelli più rigoroso e utilizzati nel settore non-profit e della cooperazione.

Consulta il programma del corso “Theory of Change e valutazione d’impatto” in partenza il prossimo 16 maggio.

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Photocredits: Gerd Altmann, Pixabay

La prima guida pratica per chi vuole fare il cooperante

Appena uscito il nuovo libro di Diego Battistessa “Vorrei fare il cooperante: come trasformare un sogno in una professione” un’agile guida pratica per chi si vuole avvicinare a questa professione, con consigli, esempi e buone pratiche. Realizzata in collaborazione con Ong 2.0 e Social Change School

di Silvia Pochettino

Chi è un cooperante? Cosa fa? Che competenze deve avere? Quanto guadagna? Ma soprattutto perché parte? A discapito delle molte polemiche che hanno imperversato negli ultimi mesi riguardo questo settore sono sempre di più i giovani, e meno giovani, interessati a impegnarsi nel settore della cooperazione internazionale. Ma spesso con idee molto confuse. Si ondeggia tra l’immagine favolistica dell’operatore umanitario eroico a quella dissacrante del “buonista” sfigato che – in sostanza – cerca lavoro nei paesi poveri perché qui non lo trova.
Il cooperante non è né l’un né l’altro. 
Lo spiega bene Diego Battistessa, docente di Ong 2.0 ed esperto di cooperazione internazionale con molti anni di terreno alle spalle, nel libro appena uscito “Vorrei fare il cooperante. Come trasformare un sogno in una professione, una guida agile dove trovare strumenti, buone pratiche, consigli e riflessioni per dipingere i contorni di una professione tanto bella quanto difficile da spiegare. Il cooperante non è uno che “aiuta”, così come la cooperazione non è “solidarietà”, almeno non nel senso tradizionale del termine, che presuppone ci sia qualcuno in difficoltà e qualcun altro che è solidale con lui. Cooperazione, come in realtà dice il termine stesso, è co-operare, ovvero lavorare insieme per affrontare le sfide del mondo di oggi.

Il libro, realizzato in collaborazione con Ong 2.0 e Social Change School, è  nato dall’esperienza di cinque anni di blog sulla cooperazione in cui Diego ha risposto a centinaia di domande su questa professione ed è strutturato in capitoli brevi, ognuno dei quali risponde a domande precise. “Non pretendo di dare risposte certe. – dice Battistessa – Però spero di poter aiutare molte persone a prendere delle decisioni ragionate, basate su informazioni reali, su dati,  esperienze concrete. In questo settore, non esiste una formula, un algoritmo che se applicato correttamente ci permette di stabilire che diventeremo dei cooperanti professionisti, lavorando nella regione del mondo che più amiamo e con l’organizzazione che più rappresenta i nostri valori”

La professione del cooperante internazionale è una professione difficile, che non può essere improvvisata, che è lungi dal basarsi solo “sulla buona volontà” come si credeva un tempo, o sulle capacità tecniche, come si credeva dopo. E’ una professione che richiede competenze a 360 gradi, tecniche certo, ma anche e soprattutto sociologiche, antropologiche e umane. “Dire cooperazione internazionale senza specificare niente di più, equivale a dire “sport” senza aggiungere nient’altro. Dire di voler lavorare nella cooperazione internazionale senza aver in mente una funzione precisa e come dire di voler partecipare alle olimpiadi senza avere in mente nessuna disciplina sportiva in particolare”.

Perché  – va detto – il rischio di fare più danno che altro è sempre in agguato, e tuttavia in un mondo sempre più interconnesso, dove le tecnologie digitali superano tutti i confini, i capitali fluttuano senza sosta, continuare a fermare le persone alle frontiere, verso il nord o verso il sud è un controsenso. Ma prepararle adeguatamente, invece, è un aspetto fondamentale. In questo senso “Vorrei fare il cooperante” è un libro unico nel suo genere:
“Perché non esistono manuali che ci spiegano come avvicinarci ad un settore così difficile da capire come quello della cooperazione internazionale – dice ancora Diego – Un settore che racchiude un universo di terminologie, rituali, norme non scritte, luoghi comuni, rischi, avventure ma soprattutto che ci da l’opportunità di sentirci parte di un cambiamento universale, di un movimento internazionale di persone che non accettano la realtà per quello che è e decidono di diventare catalizzatrici della trasformazione verso “un altro mondo possibile”.

 

Photo credits: Pixabay

 

Il successo di un progetto dipende dalla chiarezza degli obiettivi

La Cooperazione Internazionale lavora soprattutto attraverso progetti, strutture complesse che se costruite su presupposti sbagliati, rischiano di non produrre alcun impatto positivo. Qual è l’errore più ricorrente in cui cade un progettista? A raccontarcelo è Andrea Stroppiana, docente del percorso “Progettare la Cooperazione Internazionale“.

di Viviana Brun

 

Raggiungo Andrea Stroppiana su skype, quando è appena tornato da una missione in Marocco. Nel 1989 ha iniziato in Colombia quello che lui stesso definisce il suo “cammino nella progettazione”. Un viaggio professionale che ancora oggi lo porta a trascorrere gran parte del tempo in giro per il mondo. Infatti, è spesso impegnato in missioni di formazione o valutazione per conto di organismi internazionali partner in progetti dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite.

Oltre alle consulenze, Andrea attualmente lavora per l’ONG Ricerca e Cooperazione ed è formatore e docente esperto di Project Cycle Management, con particolare attenzione alla qualità della progettazione.

Il suo punto di forza come docente è subito chiaro: è abituato a mettere in pratica ciò che insegna, a testare sul campo teorie e metodologie, traendone insegnamenti e riflessioni che condivide volentieri con i suoi studenti e le sue studentesse. D’altronde, sottolinea Andrea, “quanto sarebbe credibile un medico che insegna medicina senza aver mai preso il bisturi in mano? Per chi si occupa di formazione nell’ambito della cooperazione internazionale il tipo di approccio dovrebbe essere esattamente lo stesso”.

Di errori e di progetti destinati a fallire purtroppo ce ne sono tanti. Per questo è importante che un progettista investa nella propria formazione prima di buttarsi a capofitto nella pratica. Andrea mi spiega come la chiave del successo di un progetto stia proprio nella forma mentis di chi lo scrive. “Nella progettazione a ogni termine corrisponde un significato preciso. Per questo è necessario partire da pochi concetti chiave per orientarsi meglio, riuscire a leggere e a capire i tanti documenti che esistono sull’argomento e per sviluppare uno spirito critico orientato all’efficacia delle azioni”.

 

Qual è uno degli errori più ricorrenti nella progettazione?

“Quasi ogni progetto che valuto presenta il grosso inconveniente di avere tra gli obiettivi delle attività. Il malinteso nasce dalla lingua parlata, in cui non è così netta la distinzione tra i termini “obiettivo” e “attività”, tanto che possiamo benissimo dire che – il mio obiettivo è quello di comprarmi una macchina -. Mentre acquistare una macchina è qualcosa che si fa, ovvero un’azione, non certo un obiettivo. Questo tipo di approccio, in cui l’obiettivo coincide con l’attività è disastroso, perché porta a non distinguere più lo strumento dal beneficio. Lo strumento è l’azione, quello che si fa e l’obiettivo è il beneficio, ciò che si ottiene attraverso quell’azione. Se io dico che il mio obiettivo è formare delle persone, non ti sto dicendo qual è il beneficio che voglio ottenere, ti sto solo dicendo ciò che voglio fare. Purtroppo, questa cattiva pratica sussiste in 8 progetti su 10. Per essere un buon progettista, è necessario che nella propria testa la differenza concettuale sia molto netta.”

 

Il finanziatore penalizza questo tipo di errore?

“Dipende, a volte può anche sfuggire. Spesso i bandi ricevono un enorme mole di progetti da valutare in poco tempo. Poi c’è il fatto che chi valuta ha pochissime interazioni con chi prepara un progetto, non sempre può chiedere al progettista di fare delle correzioni. In due ore deve dare un giudizio e può capitare che il progetto sia molto buono, benché abbia dei vizi di forma, e allora passa lo stesso. Spesso però i vizi di forma nascondono i vizi di sostanza, che compromettono l’efficacia del progetto.

A volte mi capita di valutare dei progetti che non hanno obiettivi. Come si valuta il successo di un progetto che non ha obiettivi? Avere successo non vuol dire fare le attività, ma ottenere benefici, se questi non ci sono, l’efficacia non è misurabile. Ad esempio, vengono finanziati dei corsi di formazione senza sapere quale sia il beneficio atteso e senza poterlo valutare. Un progetto basato sulle attività porta a formare delle persone che poi metteranno il know how acquisito in un cassetto, senza poterlo applicare.”

 

Qual è il legame tra obiettivi e sostenibilità?

“Se io non ho degli obiettivi chiari non ho neanche la sostenibilità. La sostenibilità infatti non dipende dall’output ma dall’outcome. Mi spiego, un progetto sanitario non è sostenibile perché ho creato un ospedale (outup), è sostenibile se persiste il beneficio che questo output dà, ovvero l’accesso alla cura sanitaria (outcome). È quest’ultimo ciò che deve durare nel tempo. Se pensiamo ai corsi di formazione, ciò che deve essere sostenibile ovviamente non è il corso in sè, ma il know how che ne deriva, che deve essere spendibile. Se non hai degli obiettivi non hai neanche dei validi indicatori e diventa molto difficile misurare il reale impatto di un progetto.”

 

Se vuoi scoprire se la progettazione fa al caso tuo, vai alla pagina di “Progettare la Cooperazione Internazionale” e esplora il programma del corso.

 

 

Theory of Change: come generare e valutare il cambiamento

Mercoledì 19 Aprile più di 400 partecipanti (in diretta e in differita) hanno approfondito la Teoria del Cambiamento (ToC) durante il secondo webinar gratuito del percorso “Lavorare nella Cooperazione Internazionale“. In questa occasione, Christian Elevati, Senior Consultant in gestione e valutazione dell’impatto sociale che lavora da molti anni per realtà del Terzo Settore, è partito da un punto fermo: si lavora nella cooperazione, nel sociale, perché si crede nel cambiamento. A questo proposito però, occorre domandarsi a quale cambiamento ci si riferisce e come questo debba essere monitorato e valutato. 

La ToC è una metodologia specifica applicata nell’ambito del sociale per pianificare e valutare dei progetti che promuovano il cambiamento sociale attraverso la partecipazione e il coinvolgimento. Si definiscono dunque obiettivi a lungo termine e a ritroso si ricostruiscono logicamente i legami causali per arrivare a quegli obiettivi. Così facendo, è possibile stabilire degli obiettivi intermedi e delle fasi che potranno e dovranno essere verificabili costantemente.

Secondo Christian una delle definizione più precise della Teoria del cambiamento è la seguente:

La Theory of Change è un processo rigoroso e partecipativo nel quale differenti gruppi e portatori di interesse nel corso di una pianificazione articolano i loro obiettivi di lungo termine [impact] e identificano le condizioni che essi reputano debbano dispiegarsi affinché tali obiettivi siano raggiunti. Tali condizioni schematizzate negli outcomes che si vogliono ottenere e sono organizzate graficamente in una struttura causale.

Dana H. Taplin, Heléne Clark, “Theory of Change basics”

Il webinar è poi proseguito ponendo l’attenzione su una domanda chiave: “C’é veramente bisogno della teoria del cambiamento?”. Secondo Elevati la prima risposta è “Si, vale la pena farci i conti presto”. Uno dei motivi principali è che ci troviamo in piena crisi strutturale, culturale, politica e di risorse. Non si può più non rendere conto di come usiamo le poche risorse a disposizione e quanto siamo, come soggetti o organizzazioni, efficaci ad usarle.

Nel contesto in cui viviamo i cambiamenti sono rapidi e la complessità è grande: è necessario dimostrare di poter creare cambiamento, analizzandolo, monitorandolo e rendendo conto di tutti i fattori che portano alla sua riuscita. 

Andando nello specifico, si potrebbe strutturare in questo modo la composizione di una ToC che deve includere sempre:

  • Una esplicitazione chiara delle ragioni alla base dei cambiamenti reali e duraturi in una specifica area tematica e delle relative preconditions (fattori al di fuori del controllo del management che possono influenzare il legame causale delle ToC).
  • L’articolazione di un percorso che porta a tali cambiamenti attraverso lo sviluppo di strutture e di competenze organizzative specifici e programmi/progetti.
  • Un sistema di impact management & evaluation in grado di implementare quel percorso e di testare i presupposti, le risorse e gli strumenti messi in campo.

Quando affrontiamo la ToC in un programma o progetto, l’esplicitazione delle assumptions è cruciale. Le assumptions riguardano il modo in cui crediamo che le cose possano cambiare e dipendono da ideologie, valori, preconcetti, stereotipi o visioni del mondo. Si tratta quindi di idee che spesso assumiamo in modo implicito, come soggetti singoli o come organizzazione, e che più sono inconsapevoli più sono pericolose poiché “agiscono senza che ce ne rendiamo conto, guidando di fatto le nostre scelte”. 

A questo proposito il docente sottolinea che “l’obiettivo del processo della ToC è quello di farle emergere, di discueterle, di testarle e allo stesso tempo di generarne di nuove maggiormente basate su un’evidence reale e condivisa”. Questo permetterà di chiarirle in  modo rigoroso, lasciare spazio a dubbi interpretativi o idee abitudinarie.

Dopo una prima analisi, possiamo affermare che la ToC è uno strumento fondamentale per rispondere alle seguenti domande:

  • Che cosa è cambiato (o no) a livello di outcomes e perché?
  • Quanto questi risultati sono sostenibili nel tempo?
  • Qual’é l’impact che questi risultati hanno prodotto?
  • Qual’é stato il contributo del programma/intervento/progetto a questi outcome rispetto ad altre cause o influenze?
  • Quali sono le implicazioni per le politiche e per le strategie (locali, nazionali, internazionali)?

E’ stato utile, nel corso di questa analisi, approfondire gli elementi che qualificano il raggiungimento effettivo dei risultati. Christian Elevati ci ha proposto i 4 livelli principali (non gli unici) da cui partire per effettuare una valutazione preliminare:

  • Cosa sarebbe avvenuto allo stesso campione di popolazione senza il nostro intervento?
  • Quanta parte del risultato raggiunto (outcome) è attribuibile esclusivamente al nostro intervento?
  • Vi sono stati effetti negativi su altre organizzazioni o in altri territori/comunità collegati al nostro intervento?
  • Come cambia l’outcome generato nel corso del tempo?

Oltre ad effettuare un’analisi di questo approccio, il docente ha presentato rapidamente diverse metodologie e strumenti utili per la valutazione dell’impatto di un intervento nell’ambito della cooperazione internazionale.

E possibile visionare qui le slide dell’intervento:

Avvicinandoci alla conclusione del webinar si è riflettuto sull’inversione di prospettiva che che questa teoria richiede rispetto all’approccio tradizionale. Infatti, invece di chiederci quali azioni occorra mettere in campo per raggiungere i nostri obiettivi, dovremmo domandarci quale cambiamento di medio/lungo periodo vogliamo raggiungere a vantaggio dei principali destinatari dei nostri sforzi e quali sono le pre-condizioni migliori per ottenerlo.

Conclude Christian Elevati: “Di quale cambiamento stiamo parlando? Non è possibile darsi una risposta ma, come abbiamo visto, si possono fissare dei punti di partenza chiari e definiti”.

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Il racconto del webinar attraverso i tweet

Photo Credits: Pixabay

Il cooperante, una figura in continua evoluzione

Quello del cooperante era, fino a qualche tempo fa, un lavoro fuori dall’ordinario. Oggi si sta trasformando nella scelta di un numero sempre più alto di persone. Con competenze e caratteristiche sempre nuove. Ne parliamo con Diego Battistessa, cooperante e attualmente coordinatore accademico presso l’Istituto di studi internazionali ed europei “Francisco de Vitoria” dell’università Carlos III di Madrid.

di Camilla Fogli

Con l’aumento di situazioni critiche e di emergenza, aumenta anche la domanda nel mondo della cooperazione, un settore in crescita che si sta aprendo e trasformando, e con lui anche chi ne fa parte. Questo non vuol dire però che diventare un operatore della cooperazione internazionale sia una decisione facile o banale, anzi. Si tratta di un lavoro che richiede un impegno costante, per gestire non solo la complessità delle relazioni che si intrecciano tra i vari attori, ma anche per stare al passo con una continua necessità di adattamento e aggiornamento.

Al riguardo, il portale Open Cooperazione fornisce una panoramica aggiornata al 2015 dei dati sulle principali ong italiane. Dai dati presentati, emerge l’importanza che questa parte del settore no-profit ha acquisito negli ultimi anni: i bilanci di 115 ong raggiungono quasi mezzo miliardo di euro, ma soprattutto il totale delle risorse umane impiegate, in Italia e all’estero, corrisponde a più di 16mila persone, senza contare gli oltre 80 mila volontari impegnati in oltre 2500 progetti sparsi in un centinaio di paesi.

Le risorse umane impiegate dalle 115 ong italiane censite da Open Cooperazione

Per riuscire a comprendere un po’ meglio questa realtà, così dinamica e varia, ci siamo fatti aiutare da un esperto del settore, Diego Battistessa, che sarà il docente del webinar gratuito di Ong 2.0 “Cooperazione internazionale: strumenti e buone pratiche per operare nel settore” e del corso “Professione cooperante: da dove cominciare”.

“Il primo punto da chiarire è che non esiste un unico percorso, una formula matematica che se applicata correttamente ti fa diventare cooperante internazionale. In questi anni in giro per il Mondo ho conosciuto colleghi e colleghe con profili professionali e storie di vita completamente diverse tra di loro”

Secondo Battistessa “la cooperazione è uno strumento molto forte, ha la capacità di offrire, attraverso il lavoro, le nostre stesse possibilità a qualcuno che non le ha”, quindi chi sceglie di fare il cooperante, soprattutto all’inizio, è perché vuole sentirsi parte della messa in pratica di un ideale, di un cambiamento in positivo. Come in tutte le cose, la giovane età e l’inesperienza portano ad un grande entusiasmo, che non guarda in faccia nessuno e che vuole avere un riscontro diretto, un risultato immediato. Maturando, ci spiega poi Diego, questo entusiasmo si trasforma e si affina, gli anni e l’esperienza portano ad una maggiore consapevolezza e pazienza, ma soprattutto ad una reale comprensione dei meccanismi di condivisione dei progetti e all’importanza non solo degli obiettivi comuni ma anche del compromesso. La cooperazione cambia e così cambiano i cooperanti. La prima cooperazione, quella di 20 anni fa, non avrebbe mai accettato di lavorare con le grandi multinazionali. Ora, invece, grazie ad alcuni provvedimenti presi in seno alle Nazioni Unite, così come in Italia con la riforma del 2014, si è arrivati ad un’azione collaborativa tra cooperazione e settore privato, senza il quale sarebbe impensabile crescere e riuscire a portare un cambiamento tangibile.

Per quanto riguarda, invece, le difficoltà incontrate da chi vuole intraprendere questo percorso, sono in particolare due quelle che Diego sottolinea. Una prima difficoltà comune a tutti i cooperanti è quella dell’età. A quanti anni si è pronti per partire? A quanti invece sarebbe meglio lasciare il terreno e passare alla cosiddetta cooperazione dietro le quinte? Non c’è una risposta giusta o sbagliata a queste domande, dipende molto dalla propria esperienza personale. Anzitutto, è proprio il terreno a compiere la prima selezione. Fare il cooperante sul campo è un lavoro duro, nel quale non basta essere altamente preparati, è un lavoro che richiede sacrificio e capacità di adattamento e, solitamente, i limiti – fisici o mentali – di una persona vengono fuori alla prima esperienza. Insomma, non tutti sono portati ad un impegno del genere, a prescindere dall’età o dalla propria motivazione personale.
Un’altra grande difficoltà nella scelta di fare cooperazione sul campo è poi quella legata all’aspetto umano di questo mestiere. Da un lato ci si trova coinvolti e inglobati in una nuova “grande famiglia”, come la definisce Diego, quella di tutti i cooperanti e le persone coinvolte che si incontreranno nel corso del progetto.

“Fare cooperazione vuol dire entrare a far parte di una tribù, costruita su aneddoti in comune, piccoli villaggi sperduti in cui tutto il mondo è stato. Una grande famiglia con il suo linguaggio e la sua simbologia. E quando cerchi di uscirne, quando ti dedichi a fare altro, inevitabilmente ti manca”

Dall’altra, però, le relazioni al di fuori sono sempre più fragili e complicate dalla distanza e dalla non condivisione delle esperienze. Può essere davvero difficile riuscire a spiegare, da un lato, e a comprendere, dall’altro, cosa prova un cooperante sul campo, cosa vuol dire vivere il costante effetto fisiologico dell’adrenalina e dell’imprevisto. Chi decide di fare il bambini cooperazionecooperante sa già che, nel bene e nel male, dovrà cambiare continuamente le sue persone di riferimento, quegli affetti che diventano punti fermi nella vita di una persona e di cui ognuno di noi ha bisogno. Insomma, a un certo punto ci si chiederà quando e per chi valga la pena fermarsi. Dall’esperienza di Diego, a riuscire a far convivere cooperazione e famiglia sono soprattutto quei cooperanti che trovano la loro casa in uno dei luoghi in cui si sono trovati a lavorare. A tal proposito, ci riporta la riflessione di un collega che l’ha colpito in modo particolare. Anche lui cooperante per alcuni anni, è arrivato ad una conclusione semplice ma efficace: prima di iniziare questo mestiere, che diventa irrimediabilmente anche un vero e proprio stile di vita, bisogna avere un piano, bisogna già sapere quando si vorrà lasciare il terreno, perché, come Diego ci ripete più volte, il terreno è additivo, e non ti lascia più.
A mettersi in mezzo è poi, molto spesso, anche quel senso di estraniamento e inadeguatezza che si prova una volta tornati dopo un periodo sul campo. Reintegrarsi nella vita di tutti i giorni non è infatti così banale, anzi. Sul terreno si vive in un contesto instabile, in cui nonostante esistano regole e protocolli precisi, a farla da padrona è principalmente l’improvvisazione. Tornare alle regole di un ufficio o alla tranquillità della routine quotidiana non sempre è scontato ed è anche per questo che, alla fine, in tanti decidono di ripartire.

La domanda che a questo punto sorge spontanea è dunque cosa ci si aspetti da un cooperante, quale sia il profilo ideale, oggi e nel futuro. Al riguardo Diego non ha dubbi: “alta professionalizzazione”. Poi ci spiega meglio: il nuovo mondo della cooperazione è un contesto che si sta specializzando e sta diventando sempre più competitivo. Una volta era difficile trovare qualcuno che volesse partire e quindi spesso chi decideva di fare il cooperante acquisiva la maggior parte delle competenze più tecniche in loco, ora non è più possibile. Anzitutto, ci troviamo in un contesto in cui non ci si può più semplicemente arrangiare; a partire dalle lingue, la cui conoscenza professionale è oggi data per scontata, per finire con specifiche competenze tecniche, come ad esempio il PCM (Project Cycle Management). Un buon esempio sono anche le ICT, le tecnologie della comunicazione e dell’informazione applicate allo sviluppo, ormai fondamentali, di cui si richiede una conoscenza professionale e trasversale. Una volta la tendenza era prendere più specialisti per diverse mansioni, ora assistiamo invece ad una definizione e professionalizzazione del lavoro del cooperante, tale per cui la tendenza delle organizzazioni è quella di limitare sempre di più il personale expat per utilizzare il capitale umano locale.

In sostanza, Diego ribadisce più volte il fatto che non si tratta di  un lavoro come tutti gli altri ma, come dice lui, “è un lavoro che ti chiede di essere quello che fai”.

Photo Credit: Diego Battistessa

Infografica: Open Cooperazione

Sistemi di monitoraggio e valutazione: un importante elemento di trasparenza

Monitoraggio e valutazione di un progetto, sembrano terribili parole in “burocratese”, ma nascondono una realtà molto semplice: per realizzare al meglio un’attività, qualunque essa sia, bisogna avere sotto controllo una gran quantità di elementi.

I sistemi di monitoraggio servono proprio a questo: impostare il controllo dei diversi aspetti di un’attività passo passo.

“Sono strumenti fondamentali per lavorare bene” sostiene Silvia Favaron, consulente di varie Ong, alle spalle un master in valutazione a Rennes e 15 anni di esperienza in assistenza tecnica su monitoraggio e valutazione nei vari continenti, nonché docente al prossimo corso di Ong 2.0 in Monitoraggio e valutazione base e avanzato  “Oggi sono richiesti da tutti i finanziatori, ma non si tratta di rispondere semplicemente a una esigenza  burocratica, padroneggiare i sistemi di monitoraggio e valutazione è importante in sé per l’efficacia del progetto ed è molto sottovalutato dalla maggior parte delle ong”. Per Favaron sono tre le valenze fondamentali di questi strumenti: “Sono un elemento di trasparenza, permettono la comunicazione verso l’esterno e il controllo verso l’interno”.

La letteratura e i manuali per realizzare monitoraggio e valutazione abbondano – da segnalare anche quello redatto dal Ministero affari esteri italiano –  e anche i software per la raccolta dati, che può essere impostata in molti modi. “L’importante è che si faccia – sostiene Silvia – troppo spesso invece si arriva sul terreno per la fase di valutazione finale e ci si accorge che mancano i dati”

L’approccio di Favaron alla raccolta dati per il monitoraggio parte dall’analisi del quadro logico di progetto. La maggior parte dei progetti di cooperazione, infatti, oggi hanno un quadro logico (uno degli strumenti fondamentali del ciclo del progetto, che associa agli obiettivi e alle attività degli indicatori, ndr ). Si tratta di partire da questi indicatori e ragionare su come si possono raccogliere dati correlati, chi lo farà e ogni quanto tempo. “Bisogna rendere il quadro logico un elemento vivo, non una scartoffia in un cassetto” sostiene Favaron. “La raccolta dati e il monitoraggio nel corso delle attività può portare a reindirizzare il progetto in corso d’opera ed evitare clamorosi fallimenti. E poi non c’è valutazione di qualità senza monitoraggio. Certo è un lavoro faticoso, ma la cosa migliore è impostare la raccolta dati fin dall’inizio”

La valutazione, poi, sarà estremamente più semplice ed efficace se ci sono dati di partenza, tanto che sia realizzata da un consulente esterno che da un gruppo di auto-valutazione. “Sempre più si adotta l’approccio della valutazione partecipata” spiega Silvia “ed esistono una vasta gamma di possibili tecniche per coinvolgere i diversi stakeholders, anche quando ci troviamo in contesti non alfabetizzati. Ad esempio vengono disegnate mappe, analizzate fotografie, stilato l’albero dei problemi o più semplicemente si fa una camminata con i soggetti locali chiedendo loro di indicare i luoghi più significativi del villaggio….”

Suggerimenti pratici per affrontare tutto questo lavoro?

“Fare le cose più semplici possibili” sostiene ancora Favaron. Un esempio viene da un progetto in Malawi da lei seguito in cui erano state impiegate molte risorse per il monitoraggio e la valutazione creando un database molto complesso di raccolta dati. Il problema poi è stato che nessuno lo aggiornava perché troppo complicato. “Anche un semplice foglio Excel va benissimo”

Il secondo suggerimento è crederci “lavorare su questi aspetti come su qualunque altra attività del progetto, non solo come mero esercizio per i finanziatori“.

Approccio di genere; atout indispensabile per la cooperazione

Donne e uomini non sono uguali. Una banalità? Non se si vuole lavorare seriamente nei processi di sviluppo.

di Silvia Pochettino

Sia ONU che Banca mondiale, come riportato nel documento Uguaglianza di genere ed empowerment delle donne del Ministero Affari Esteri italiano, dimostrano chiaramente che la marginalizzazione del ruolo delle donne impedisce la sostenibilità delle azioni di sviluppo.
A livello di politiche internazionali l’ultimo decennio è stato fondamentale nel riconoscimento del concetto di genere, elaborato già negli anni ‘70 e poi diventato centrale nelle politiche di sviluppo con la Convenzione per l’eliminazione di ogni discriminazione sulle donne e in seguito la Conferenza di Pechino del 1995.

Eppure parlare di approccio di genere non significa semplicemente parlare di promozione del ruolo della donna.
Lo chiarisce subito Luisa Del Turco, grande esperta di politiche di genere, direttore del Centro Studi Difesa Civile e docente al prossimo corso di Ong 2.0 su “Approccio di genere nella cooperazione internazionale”.

Spiega Luisa: “L’approccio di genere non è una disciplina, non è un ambito di intervento come tanti altri nella cooperazione internazionale, come sanità, agricoltura, assistenza umanitaria, recupero culturale, ecc..è un approccio trasversale a tutti gli ambiti, un modo di guardare le cose”. Si tratta in concreto di “una serie di strumenti che permettono di analizzare ogni attività ponendo attenzione continua alle differenze, alle attitudini, alle competenze di uomini e donne”.
Un esempio di strumento? L’analisi di genere. “Quando lavoro in un paese con un’organizzazione locale o anche quando guardo la mia stessa ong” continua Del Turco “se indosso la lente di genere, vado ad analizzare dove ci sono uomini e donne, in che percentuale, quale ruolo ricoprono, che cosa fanno, se partecipano attivamente o no all’azione di intervento. Sulla base di questa analisi è possibile valutare qual è il soggetto meno coinvolto, o se un soggetto è posizionato in un ruolo che non è adatto al suo genere e questo inficia la riuscita del mio progetto”.

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In generale sono le donne le più marginalizzate dai processi produttivi e politici, ma non è sempre così. Ci sono contesti in cui la marginalizzazione riguarda gli uomini “Ad esempio nei campi profughi” spiega Del Turco “ dove gli uomini sono molto pochi, e la maggioranza dei servizi riguarda donne e bambini”.
Altri strumenti dell’approccio di genere sono il gender planning, il gender evaluation: “tutto il ciclo del progetto può essere rivisto alla luce della lente di genere. Dall’analisi dei bisogni, all’implementazione, fino alla valutazione dobbiamo sempre tenere presente la differenza uomo-donna” sostiene la docente.

Gli effetti sono tanti, implementare l’approccio di genere non è una scelta politica o ideologica, è prima di tutto una scelta di efficienza, che riguarda tutte le organizzazioni, le azioni di sviluppo, umanitarie o in aree di conflitto.
Un esempio che riporta Luisa del Turco è quello dell’Afghanistan dove il ruolo di uomini e donne è declinato in modo molto diverso dalle aree di provenienza dei cooperanti, se non ci sono competenze di genere si possono non solo non raggiungere gli obiettivi del programma ma anche causare danni gravi. Ad esempio se un operatore maschio prende contatti con una operatrice locale donna in un contesto sbagliato si rischia non solo di fallire ma anche di mettere a rischio l’incolumità della donna in un paese dove una percentuale altissima di donne è in carcere per reati morali.

“L’approccio di genere è fondamentale per operare nel modo giusto nel contesto relativo, ed evitare errori grossolani” ribadisce la docente “Ma si tratta anche di efficienza. Ad esempio è dimostrato che le donne sono dei canali ottimi e molto affidabili per la distribuzione degli aiuti nei contesti di emergenza”.

Le donne, marginalizzate dai poteri forti, hanno spesso sviluppato pratiche alternative nell’ambito del peacebuilding o dei processi di sviluppo, per questo conoscere e valorizzare queste pratiche può fare la differenza.

L’Italia sia nella nuova legge di cooperazione, sia nelle linee guida per l’uguaglianza di genere già citate, sia nel più recente piano d’azione per donne pace e sicurezza, è impegnata su tutti i fronti. Questo non vuol dire però che l’approccio di genere sia già interiorizzato dalla maggior parte degli operatori della cooperazione internazionale, anzi.

E per questo che Ong 2.0 ha voluto organizzare un percorso online specifico di formazione sul tema. Qui si possono trovare programma e metodologia Approccio di genere nella cooperazione internazionale”.

Credit photo: Viviana Brun