Notizie, curiosità, risorse e best practices sull’uso dei social media da parte delle organizzazioni non governative.
Nel 2012 questo blog ha ospitato gli aggiornamenti di un lavoro di ricerca a cura di Donata Columbro sulla comunicazione della cooperazione internazionale attraverso i nuovi media cofinanziata dalla Fondazione CRT e della Fondazione Giovanni Goria nell’ambito del Master dei Talenti della Società Civile.

Cosa ho imparato in quattro anni di lavoro tra ong e social media

di Donata Columbro

La cosa più pericolosa da fare è rimanere immobili.

William Seward Burroughs

Questa è stata la mia ultima settimana di lavoro a Ong 2.0. E a Volontari per lo Sviluppo e in Cisv, l’ong capofila di questo progetto editoriale – prima – e di innovazione – oggi – nel mondo della cooperazione allo sviluppo.

Sono arrivata a VpS nel 2010, fresca di laurea in relazioni internazionali e di un periodo di studio in Burkina Faso. Non vedevo l’ora di poter scrivere su uno dei miei giornali preferiti, che aveva, tra l’altro, contribuito a definire il mio percorso universitario.

In questi quattro anni ho imparato moltissimo. Ho avuto la fortuna di vivere (e studiare) l’evoluzione di un giornale cartaceo che ha saputo trasformarsi e farsi portavoce di un cambiamento tra le organizzazioni non governative italiane. Non ricordo chi ha detto la frase “se vuoi imparare, insegna”, ma per me ha funzionato davvero. I webinar e i corsi online di ONG 2.0 sono stati un’autentica finestra di apprendimento continuo su come le ong e le associazioni non profit, con molta prudenza, hanno cominciato a farsi permeare da una nuova modalità di lavoro e progettazione: quella che non teme il confronto e la conversazione attraverso le diverse applicazioni del web “sociale”.

Tre le cose che vorrei portarmi via e allo stesso tempo lasciare su queste pagine:

  1. il cambiamento provocato dal digitale e dalla crisi economica fa faceva paura alle ong: in realtà c’è molto da fare e chi “sa” e chi “può”, deve mettersi a disposizione per attivarlo. Le richieste di aiuto per comprendere i “nuovi” media (accettiamo il fatto che per molti lo sono ancora, nuovi) ci sono e vanno ascoltate, accompagnate.
  2. Frequentare la comunità è il 60% del nostro lavoro. È come leggere il giornale per sapere cosa è successo nel mondo. Se vuoi conoscere le persone che ti hanno scelto, ti stanno scegliendo e forse ti sceglieranno devi stare con loro. Evviva i gruppi Facebook e in particolare, nel nostro caso, Cooperanti si diventa.
  3. La ricerca e la sperimentazione sono il restante 40%. Spocarsi le mani (vedi foto che introduce questo post) provando nuovi strumenti e strategie è fondamentale, sia per essere credibili nei confronti di chi vogliamo “istruire” al digitale, sia per mettere in atto in prima persona il cambiamento.

 Che a volte vuol dire anche fermarsi e passare il testimone.

 Il web non cambia il mondo, ma permette alle persone che vogliono farlo di incontrarsi.

Lo ha detto Claudia Vago (@tigella) all’ultima edizione dell’Internet festival di Pisa. È una bellissima frase, su cui si basa gran parte del nostro lavoro. Ancora più bella perché il mio testimone, oggi, passa a lei. Insieme a tutta la squadra di ONG 2.0, direi che vi lascio in buonissime mani.

grazie

Tools per lavorare meglio online

Una lista di strumenti in aggiornamento per chi vuole ricavare il meglio da internet, con pochi sforzi:

Sopravvivere all’information overload:


LINK: Feedly – Zite – Prismatic – Evernote – Pocket – Flipboard – Google Alert – Ifttt – Rescue Time – Google Keep – Website blocker – Pomodoro Technique

Content curation

LINK: Storify – Seejay – Tagboard – Scoop.it –  Pinterest – Rebelmouse – Bundlr – Flipboard magazine – List.ly – Tumblr

Remote work

LINK: Slack – Trello –Podio – Cel.ly –Hackpad –Drive – WeTransferBox.netDropboxGaze

Social media Dashboard

LINK: Hootsuite – TweetDeck – Buffer

Personal branding


LINK: Personalbrandingcanvas – About.me – Flavors.me – Linkedin – Contently –  SlidesScribdSlideshare – Aprire un Blog (WordPress, Tumblr, …)

Visualization & Infographics

LINK: Canva.com –  Datawrapper – Easel.ly – Infogr.am – Wordle – Murally  – Prezi – Videoscribe

Abbattere la fortezza: 4 motivi per usare gli open data nel non profit

di Donata Columbro

Secondo l’ultimo Aid Transparency Index sono sempre di più le agenzie internazionali e i governi che cominciano a pubblicare i loro dati sui fondi allo sviluppo, anche in formato aperto, rispettando standard internazionali come quelli disposti dalla convenzione IATI.

Perché tutto il terzo settore dovrebbe interessarsi (e formarsi) all’uso degli open data? Ho provato a delineare quattro motivazioni in vista di un mio intervento al festival di Varese News su questo tema:

  1. La domanda di trasparenza è sempre più alta. Sia nei confronti dei governi che delle organizzazioni che gestiscono fondi pubblici. Ma, in generale, nei confronti di qualunque attore richieda una certa dose di fiducia alla propria comunità di riferimento (cittadini, volontari, stakeholder, donatori) necessaria a portare avanti le sue attività. Aumenta quindi da parte del pubblico l’esigenza di avere dati di cui fidarsi, accessibili e sulla base dei quali sia possibile attivare azioni di cambiamento.  È già stata discussa a livello europeo la possibilità di richiedere alle non profit e alle imprese sociali di misurare il “roi”, ovvero il “return of investment” del proprio impatto sociale. Perché i dati aiutano a osservare meglio la connessione tra le risorse stanziate e i progetti realizzati, individuare aree e soggetti rimasti esclusi e prendere decisioni migliori per il futuro, migliorando la propria accountability.
  2. Una questione di comunicazione. Perché la soluzione ai problemi del mondo potrebbe essere già stata trovata ma è stata pubblicata “in pdf che nessuno legge”. Un recente rapporto della Banca Mondiale ha rivelato che quasi un terzo dei rapporti pubblicati dall’organizzazione non è mai stato scaricato nemmeno una volta. Il 40% è stato scaricato meno di 100 volte. Solo il 13% dei report ha avuto 250 download nel corso della sua “vita” online. E non è un caso che la BM sia stata una delle prime organizzazioni internazionali a pubblicare i propri database in formato aperto nel 2010. Dalla disponibilità di dati aperti deriva una maggior facilità nel produrre visualizzazioni del proprio lavoro, utili per organizzare contenuti e definire campagne di comunicazione più efficaci. Sul Guardian viene ricordato che una delle prime data visualization della storia è stata realizzata nel settore non profit, nel 1857, con l’infografica delle cause di mortalità dei soldati disegnata dall’infermiera Florence Nightingale durante la guerra di Crimea, per convincere la regina Vittoria a migliorare le condizioni dei ricoveri militari.
  3. È l’Onu che ce lo chiede. L’8 novembre è stata resa pubblica la bozza del rapporto sulla Data revolution invocata da Ban ki moon per un maggior impegno nella valutazione dell’impatto dei progetti e nel monitoraggio delle condizioni di vita delle popolazioni attraverso i dati. Agenzie come UN Global Pulse sono state avviate proprio su questa spinta e vogliono aiutare le ong e le organizzazioni non profit a una maggiore integrazione con i governi e le imprese per usare i dati nell’ideazione e valutazione dei progetti.
  4. Per agitare le acque. C’è bisogno che il non profit diventi protagonista di questa battaglia per i dati aperti. L’entusiasmo a livello di dibattito pubblico non manca, ma bisogna tenere conto che più dati non equivalgono a dati migliori. Anzi, fornire dati poco accurati, non aggiornati e di difficile consultazione non portano a una maggiore trasparenza, ma a una situazione di data overload poco utile anche alle organizzazioni stesse. Le ong e le non profit dovrebbero farsi portavoce di questa “rivoluzione”, producendo buone pratiche su come gli open data possano attivare cambiamento, ma anche condividendo difficoltà e fallimenti, coinvolgendo durante tutto il processo i potenziali utilizzatori dei dati .

E se ancora siete confusi sull’idea di dati aperti, ecco un video realizzato per la Trentino Open Data Challenge che ve li spiega…con una favola:

Per approfondire:
L’impatto sociale degli open data
Open development: fantascienza o opportunità?
Open development, la primavera della cooperazione
Le Ong e il non profit: come usare gli open data a Glocalnews

Beth Kanter, come sopravvivono le ong in un mondo connesso

Beth Kanter è consulente del settore non profit per le strategie di comunicazione e social networking. Il suo lavoro è anche la sua missione; viaggia in tutto il mondo per aiutare le onlus a trasformare la loro struttura secondo le caratteristiche del web 2.0: partecipazione, trasparenza e rapporti orizzontali. In occasione dell’Internet Festival di Pisa, dove Kanter terrà una keynote sulle networked non profit, riproponiamo un pezzo dell’intervista che trovate anche nel nostro ebook.

di Donata Columbro

Se il non profit ha un ‘guru’ che lo rappresenta, questo è Beth Kanter. Più di quattrocentomila follower su Twitter, nominata “una delle donne più influenti della tecnologia” da Fast Company Magazine nel 2009 e “voce dell’innovazione per i social media” da Business Week, è lei la dea che i comunicatori e i social media manager invocano quando provano a introdurre novità nel modo di gestire la strategia comunicativa all’interno delle proprie ong. Oltre a essere l’autrice di un seguitissimo blog su “Come le no profit possono usare i social media”, è ricercatrice dal 2009 per la David & Lucile Packard Foundation e lo è stata nel 2010 presso la Society of New Communications Research Fellow. La sua passione è la formazione: «Mi piace insegnare come usare i social media on-line per portare cambiamento off-line», confessa Beth, che abbiamo raggiunto in una skype call oltreoceano per farci raccontare come si diventa guru accreditati del settore.

La passione del cambiamento

«Ho iniziato a lavorare nel no profit più di 30 anni fa», racconta Beth, «sono consulente dal 1985 e da quando ho avuto occasione di usare internet per il mio lavoro, negli anni 90, ho capito che poteva essere uno strumento cruciale per la mia missione. Ho iniziato a scrivere un blog 10 anni fa e sono oggi co-autrice di vari libri sul tema». Il più noto è forse quello pubblicato nel 2010 insieme ad Allison H. Fine, altra nota consulente e blogger del mondo non profit online. Il titolo, “The Networked nonprofit. Connecting with social media to drive change“, è già un capolavoro di sintesi per chi si domanda tutti i giorni cosa fare della propria pagina facebook e del proprio account Twitter: diventare un’associazione no profit che lavora in rete, connettersi con i social media per guidare il cambiamento. Facile no? «No, non è facile, e si incontrano limiti e resistenze», ammette Kanter. «Soprattutto se all’inizio non si vedono risultati: le onlus sono scettiche, non vogliono inve- stirci troppo tempo. Abbracciare l’idea del cambiamento prende moltissimo tempo, è un processo faticoso». Kanter la chiama ‘resistenza al cambiamento’ ed è frequente soprattutto nelle organizzazioni che sono state “fortezza” per molto tempo. Le organizzazioni-fortezza, che nel libro contrastano appunto con l’idea delle “networked” no profit, sono gerarchiche, hanno la ‘mania’ del controllo delle informazioni e temono interferenze dall’esterno. Appare evidente il motivo per cui la rivoluzione di internet le abbia messe in crisi: sul web non è possibile persistere con un atteggiamento di chiusura e «prima o poi dovranno adattarsi se vogliono essere competitive» avvisa Kanter. Anche perché «sempre di più i finanziamenti scarseggiano», questo le no profit lo sanno bene, perciò «le organizzazioni dovranno diventare brave nel trovare supporto individuale. Il modo per farlo è stare dove c’è la gente, ecco perché non essere presenti sui social network oggi è un rischio».

Da fortezza a networked bethkanter

All’opposto delle organizzazioni-fortezza si trovano appunto le networked non profit, associazioni collaborative e trasparenti che prendono le proprie decisioni dal basso, lasciando un grande margine di potere alla rete dei propri sostenitori. Le fortezze sono organizzazioni nate molti anni fa, la leadership non si è rinnovata, mentre le no profit che già nascono ‘networked’ sono giovani, innovative e aperte, di solito nate da pochi anni e hanno il vantaggio di avere una struttura molto leggera, proprio come il web. Un esempio di ong che è stata in grado di trasformarsi da fortezza in networked è la Croce Rossa Americana: duramente criticati su internet a proposito degli interventi post-uragano Katrina, i dirigenti dell’organizzazione hanno reagito assumendo un social media expert per gestire le cattive opinioni dei blogger e aumentare la trasparenza. Con uno sforzo di ascolto e di monitoraggio su twitter e sui blog, la Croce Rossa è riuscita a capovolgere la situazione e vincere 50 mila dollari dalla Western Union Foundation grazie ai “mi piace” dei fan su facebook.

 

Per leggere l’intervista completa scarica gratuitamente l’ebook di ONG 2.0.

Beth Kanter sarà a Pisa l’11 ottobre con una keynote all’Internet Festival, in una giornata dedicata all’innovazione nella cooperazione internazionale.

Come twitta il non profit in Italia

Come twitta il non profit in Italia? A un mese dall’avvio dell’iter legislativo per l’approvazione della riforma sul terzo settore, proposta dal premier Matteo Renzi, abbiamo raccolto trenta giorni di tweet in italiano con l’hashtag #nonprofit per capire quali sono gli utenti più attivi nella diffusione di notizie sul tema e come sono connessi l’uno all’altro.

di Donata Columbro

Continua a leggere

Donare dati per una buona causa

Google, Facebook e le altre aziende della Silicon Valley a cui lasciamo i nostri dati in cambio di servizi gratuiti su internet sanno tutti di noi: cosa compriamo, che film guardiamo, cosa ci piace, come gestiamo le nostre relazioni, dove abitiamo, ecc. Informazioni preziose, che gli imprenditori sanno come sfruttare per guadagnare con il nostro consenso. Ma perché non usare questa “ricchezza” a favore di una buona causa?

Continua a leggere

Open data per la cooperazione, l’Italia non sa neanche di cosa stiamo parlando

I dati possono fare la differenza. Anche nella cooperazione internazionale. Possono dirci se un progetto ha fallito o ha avuto successo. Possono aiutarci a capire la strategia generale di un’organizzazione non governativa e indicare la direzione delle politiche di aiuto allo sviluppo dei governi. Quanto è attiva l’Italia in queste pratiche di trasparenza?

di Donata Columbro


Dal punto di vista governativo, molto poco. Nel sito della cooperazione italiana, al momento in cui scriviamo, non esiste nemmeno una sezione di statistiche consultabili. Ogni link a normative, rapporti e schede paese porta a documenti in pdf. Niente di più lontano dalla definizione ufficiale di open data e dal significato stesso di rilasciare i dati in formato aperto.

Già nel 2012 Sanjay Pradhan, vicepresidente della Banca Mondiale, sottolineava l’importanza degli open data per cambiare il modo in cui si pianificano interventi di cooperazione: “ I paesi in via di sviluppo oggi non accetterano soluzioni di seconda mano dagli Stati Uniti, l’Europa o la Banca Mondiale. Prendono ispirazione, speranza e competenze pratiche dalle economie emergenti di successo del Sud. Vogliono sapere come la Cina ha risollevato dalla povertà 500 milioni di persone in 30 anni, come il programma Oportunidades in Messico ha migliorato la scolarizzazione e la nutrizione di milioni di bambini. Questo è il nuovo ecosistema dei flussi di conoscenza aperta, non solo trasferimenti da Nord a Sud, ma da Sud a Sud, perfino da Sud a Nord”.

 

 

Cosa sono gli open data

Non sono “numeri” dentro un file pdf, non sono rapporti. Secondo l’Open Data Handbook sono “dati che possono essere liberamente utilizzati, riutilizzati e ridistribuiti da chiunque, soggetti eventualmente alla necessità di citarne la fonte e di condividerli con lo stesso tipo di licenza con cui sono stati originariamente rilasciati”. Per capire cosa vuol dire avere un programma di open data nel settore della cooperazione allo sviluppo basta navigare il sito della cooperazione nel Regno Unito, dove un “development tracker” accompagna il cittadino nella lettura dei numeri sulla spesa pubblica in aiuto allo sviluppo per progetto e per paese, con i data set originali disponibili e pronti all’uso in qualunque formato. Dello stesso approccio anche i siti della cooperazione svedese e norvegese. In Italia bisogna far riferimento a web documentary d’iniziativa individuale come Follow the money (che ricava i dati dall’OCSE) per sperimentare un simile approccio. La cooperazione statunitense va ancora oltre: ha persino un profilo su GitHub, piattaforma in cui gli sviluppatori possono caricare i propri progetti di software open source e discuterne eventuali modifiche con la community.

 

dev ita vs dev uk

 (I siti della cooperazione italiana e britannica a confronto)

Pradhan, nella sua Ted Talk, sottolineava l’importanza di accompagnare il rilascio dei dati da parte organizzazioni umanitarie a un avvio di pratiche di open government: azioni finalizzate all’apertura, alla trasparenza e alla partecipazione civica in tutti i campi e da parte dei governi del nord come del sud del mondo. Purtroppo anche in questo campo l’Italia è indietro, con una bocciatura arrivata qualche settimana fa dall’Indipendent Reporting Mechanism di Open Government Partnership (OGP) di cui parla approfonditamente Ernesto Belisario su Wired.

Attenzione: non confondere “open data” con “big data”: questi ultimi si riferiscono a dati che vengono raccolti in grandi quantità da aziende pubbliche o private e processabili da software potenti che difficilmente sono a disposizione di organizzazioni non governative o redazioni. I big data sono quantità di dati dell’ordine dei zettabyte, ovvero miliardi di terabyte, come ad esempio i tabulati telefonici collezionati dall’agenzia di sicurezza americana nel programma di sorveglianza Prism. La potenza per la raccolta, l’analisi e la visualizzazione richiede anche migliaia di server (leggi la definizione su Wikipedia).

Aid transparency Initiative

Anche la partecipazione delle singole organizzazioni all’iniziativa Aid Transparency Initiative non ha riscosso molto successo tra le ong italiane. Presentata nel 2008 al forum sull’efficacia degli aiuti di Accra, l’International Aid Transparency Initiative è una piattaforma per il rilascio di open data sugli aiuti. L’obiettivo è rendere l’informazione sugli aiuti di più facile accesso, uso e comprensione, con l’upload di dati in un formato standard, attraverso l’applicazione AidStream. Organizzazioni italiane registrate? Zero.

Banche dati internazionali disponibili

Esistono però raccolte di dati a livello internazionale disponibili a giornalisti e sviluppatori che vogliono esplorare il tema della cooperazione allo sviluppo attraverso della visualizzazione dei dati. Qui un elenco che cercheremo di tenere aggiornato con le vostre segnalazioni:

Banca Mondiale

UNDP

OECD

Open data for Africa

USAID

Direzione generale dello sviluppo e della cooperazione EU 

ODA (Official Development Assistance)

 

Aggiornamento Italia (21 marzo, ore 15:18): buone notizie

Nel documento sulle linee guida e gli indirizzi di programmazione per la cooperazione italiana nel triennio 2014–2016, la parola “open data” viene citata nel punto riguardante l’accountability e la trasparenza. Si legge infatti che “nel corso del 2014, durante il semestre di presidenza italiana dell’UE, sarà lanciata una piattaforma informatica di open data destinata a rendere pubblici e fruibili tutti i dati che si riferiscono ai finanziamenti e alle attività della cooperazione. L’archivio dati servirà sia a realizzare gli obiettivi di trasparenza e responsabilità per “linee interne” nei confronti dei partner e dell’Ocse-Dac, sia a far conoscere a un pubblico generale (cittadini, ricercatori, giornalisti) la realtà della cooperazione, i suoi numeri, le sue storie, attraverso materiali multimediali sulla presenza della Cooperazione Italiana nei diversi Paesi e sull’attuazione dei singoli progetti”.

Non vediamo l’ora di potervi accedere.

 

 

Leggi anche:

Open data per il non profit, a che punto siamo?
La parola magica è #open
Operazione di trasparenza in Kenya con l’Open Data Initiative

 

SocialEdu | Facebook porta la formazione online in Africa

Facebook lancia SocialEDU, una piattaforma di formazione online per gli studenti del Ruanda, un progetto pilota che è parte di un’ambizione molto più grande condivisa da Mark Zuckerberg con altre tech company della Silicon Valley: colmare il digital divide tra nord e sud del mondo.

Continua a leggere

Campagne sociali online | La top 10 del 2013

Abbiamo raccolto per voi le 10 migliori campagne non profit del 2013, scelte tra quelle che hanno saputo sfruttare internet e il linguaggio dei social media per diffondere idee e consapevolezza sulle tematiche dei diritti umani e della cooperazione internazionale garantendo dignità alle comunità coinvolte nella modalità di comunicare.

di Donata Columbro

Continua a leggere

Facebook rilascia il bottone delle donazioni online

Facebook ha annunciato il pulsante “donate” per le pagine delle associazioni non profit che ne fanno richiesta. È una buona notizia?

Continua a leggere