Social network per l’attivismo | L’eredità della primavera araba
La primavera araba non è ancora finita: continua nelle strade e nelle piazze egiziane, tunisine, siriane e marocchine. Contemporaneamente anima la rete grazie all’incessante impegno di blogger e attivisti che nel 2011 hanno cominciato a raccontare le “rivoluzioni” che hanno cambiato per sempre il volto politico e sociale del nord Africa. Blogger e attivisti che rischiano spesso la vita a causa del loro lavoro, in quei paesi dove le manifestazioni per la democrazia non hanno ancora portato a una piena libertà di espressione.
di Serena Carta e Donata Columbro
Ne abbiamo parlato con Omar Radi, giornalista marocchino ospite al festival di Internazionale a Ferrara insieme al tunisino Kais Zriba (@kaiszriba) attivista e blogger su Nawaat e l’egiziano Gamal Eid (@gamaleid) avvocato per i diritti umani, in un evento organizzato dalle ong Cefa e COSPE, GVC, NEXUS, Ai.Bi per parlare di libertà di informazione nei paesi della primavera araba.
Omar è giovanissimo, ha 27 anni, ma ha alle spalle una lunga esperienza nel mondo dell’informazione. Dopo un’esperienza come vice presidente di Attac Maroc, ha collaborato con diverse testate, tra cui Le Journal Hebdomadaire, fino alla sua chiusura nel 2010. Nel 2011, durante le proteste contro il regime, è stato tra i più attivi del “movimento 20 febbraio” e uno dei maggiori collaboratori del collettivo di blogger e militanti Mamfakinch. Oggi è un freelance, ha fondato insieme ad altri colleghi il magazine online e indipendente Lakome e scrive principalmente di economia e finanza.
Gli chiediamo qual è lo stato della libertà di informazione ed espressione nel suo paese.
“Il Marocco ha due modi per reprimere e limitare la libertà di espressione. Uno sovietico e uno americano. Quello sovietico consiste nel mettere in prigione i giornalisti che parlano male del re (attualmente in Marocco ci sono due giornalisti in prigione per i loro articoli). Quello americano è più subdolo, consiste nella “sovrainformazione”, ovvero sovraccaricare il web di notizie, anche false, sull’attualità marocchina e su quello che riguarda il governo. Vengono aperti blog e diffuse informazioni di ogni tipo, molte delle quali volte a screditare e infangare l’immagine di chi si oppone al governo. Io e i miei colleghi giornalisti veniamo costantemente insultati; inoltre, il governo non ci riconosce come giornalisti. Per diventare “giornalisti con il tesserino” è infatti necessaria la sua autorizzazione: io vivo di giornalismo e non ho il tesserino, mentre è stato dato a molti poliziotti”.
Quanto è utilizzato internet in Marocco?
“È sempre più utilizzato dai cittadini, per informarsi e per trovare notizie diverse da quelle che si sentono in tv. Sono 6 milioni gli utilizzatori di Facebook, 100mila gli utenti Twitter. Non c’è restrizione alla rete a parte per Google Earth, che qui da noi è bloccato per “motivi di sicurezza”.
Che eredità lascia il movimento del 20 febbraio?
Il movimento in se non esiste più, ma ha ottenuto un risultato importante: ha fatto emergere tra le persone il coraggio di dire quello che pensano della monarchia. Probabilmente dovremo aspettare ancora qualche anno prima che in Marocco scoppi una vera e propria “primavera marocchina”. Il nostro sistema economico, chiuso e protezionista, ci ha in qualche modo preservato dall’ondata degli effetti della crisi finanziaria che ha colpito il Nord Africa nel 2008. Ma è solo questione di tempo. Intanto, molti giovani vorrebbero lasciare il Paese: lo scrivono su Twitter, che qui in Marocco è la nicchia virtuale dove si incontrano i più intellettuali.
Qual è il modo migliore per utilizzare i social network nella mobilitazione civica e politica?
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