L’analisi del rischio, strumento fondamentale per ogni cooperante

La sicurezza del personale e la gestione del rischio sono ormai temi prioritari per tutte le Ong e possono riguardare anche aree normalmente non considerate a rischio conflitto.

di Silvia Pochettino

“La prima cosa da avere chiara è che l’analisi del rischio e le misure di sicurezza non sono la stessa cosa. L’analisi del rischio non porta ad allontanarsi dal terreno, ma anzi ad avvicinarsi. Oggi si parla moltissimo di sicurezza, ma sempre nell’ottica di creazione di barriere e ostacoli di difesa. Una corretta analisi del rischio parte invece, prima di tutto, da un profonda comprensione nel contesto in cui si va ad operare”. Così esordisce Lodovico Mariani, docente al prossimo training di Ong 2.0 sul “Risk management: lavorare nei paesi a rischio, analisi e strumenti” ,  per molti anni operatore di Intersos in contesti a rischio come Afganistan Pakistan, Libano, Sud Sudan, Iraq, Sri Lanka, Filippine, oggi Direttore amministrativo di Amref nonché coordinatore del Master HOPE – Humanitarian Operations in Emergencies in collaborazione con ASVI – School for management.

“Le ong hanno smesso da tempo di parlare di gestione della sicurezza per sviluppare piuttosto il concetto più articolato di gestione del rischio, inteso come strumento finalizzato a poter continuare a fare cooperazione in modo positivo anche in contesti difficili” continua Lodovico.

In che modo?
Prima di tutto di tratta di realizzare un serio Risk assestement: “E’ la parte fondamentale del lavoro – sostiene Mariani – si tratta di realizzare un’analisi approfondita e continuativa di un territorio, con tutti gli strumenti a disposizione, dati, statistiche, testimonianze, studi di terreno….incrociando le fonti, e attenendosi sempre e solo ai fatti. Molte agenzie lavorano con misure di rischio standard, invece ogni contesto è diverso e in ogni contesto vanno implementate misure diverse..Il rischio si abbatte realmente solo se è fatta una buona analisi di contesto”

Secondo Mariani, ad esempio, quando ci sono stati gli attentati a Bruxelles tutti gli aeroporti italiani hanno raddoppiato le misure di sicurezza ma questa misura standard è stata più una misura di rassicurazione della popolazione e di comunicazione politica che di reale riduzione del rischio attentati.
Potremmo dire che, come nel caso degli Stati, la reale riduzione del rischio passa attraverso un continuo e intenso lavoro di intelligence, così anche per gli operatori della cooperazione internazionale la maggiore sicurezza nasce da un lavoro continuo e serio di conoscenza e comprensione del contesto.
I dati non mancano: che si parta dalla base dati delle Nazioni Unite o dalle statistiche delle compagnie assicurative sull’incidenza degli incidenti, dai racconti dei cooperanti precedenti o dai report dei ministeri “il problema non è avere informazioni ma saperle leggere e incrociarle” sostiene Lodovico “e arrivare a realizzare un’analisi personale, mai basarsi tout court sui dati elaborati da altri. Le Nazioni Unite, ad esempio, elaborano il loro livello di rischio, ma loro stanno nel paese in modo molto diverso da un cooperante di una ong, seguendo semplicemente la loro analisi si possono sottovalutare alcuni aspetti o sopravvalutarne altri”.

Solo al termine del lavoro di Risk assestement ci si può chiedere davvero come ridurre i rischi a livello accettabile, e questo richiede anche un’assunzione di responsabilità personale e consapevole, valutando l’importanza delle diverse azioni sul terreno. Un esempio?
“Se andare nel campo rifugiati una volta la settimana è centrale per il lavoro che conduco sul terreno, anche se so che comporta alcuni rischi, decido di farlo lo stesso, mentre se uscire la sera per rilassarmi e prendere una birra ha lo stesso livello di rischio, non lo faccio”.

“E’ un esempio che non piace mai molto ai cooperanti – ride Lodovico – ma un elemento fondamentale di gestione del rischio è proprio saper attribuire le giuste priorità alle azioni che si compiono”.

La terza fase, infine, è stendere dei piani di contingenza nel caso la minaccia si verifichi, saper reagire velocemente e senza panico, avendo chiaro cosa è più opportuno fare.
Tutto questo perché, come sostiene senza alcun dubbio Mariani “Il rischio zero non esiste, in nessun paese, l’importante è essere preparati”.

2 commenti
  1. Dott. Mattia Garau
    Dott. Mattia Garau dice:

    Trovo interessante la riflessione proposta e vorrei arricchirla di un aspetto:
    la gestione dei rischi deve riguardare anche il mondo interno (benessere psicologico) della persona che viene assunta per lavorare sul campo.

    “Se andare nel campo rifugiati una volta la settimana è centrale per il lavoro che conduco sul terreno, anche se so che comporta alcuni rischi, decido di farlo lo stesso, mentre se uscire la sera per rilassarmi e prendere una birra ha lo stesso livello di rischio, non lo faccio”.
    …ma se la valorizzazione di un minimo di tempo libero e la costruzione e partecipazione ad una rete sociale supportiva è una risorsa per il benessere bio-psico-sociale del cooperante, forse il rischio sopradescritto può essere rivisto anche in chiave di prevenzione del Burnout lavorativo e come fattore di protezione per altri disturbi psicologici e psicosomatici.
    Molti disagi psichici si strutturano in tempi lunghi (settimane e mesi) e a volte hanno le radici nel periodo di lavoro sul campo (es. la Sindrome Post Traumatica da Stress). Finito il lavoro sul campo e terminato il contratto di lavoro, chi ha la responsabilità di fornire l´adeguato sostegno ad un lavoratore che magari ha riportato dei disagi psicologici da lavoro correlati?

    Come l´organizzazione agisce a livello preventivo per formare il lavoratore anche da un punto di vista del benessere psico-sociale oltre a quello biologico (sopravvivenza e cura delle malattie)?

    Che tipo di supporto offre al lavoratore per la ricerca del benessere bio-psico-sociale nel momento in cui dovesse insorgere una problematica psicologica e somatica?

    “La terza fase, infine, è stendere dei piani di contingenza nel caso la minaccia si verifichi, saper reagire velocemente e senza panico, avendo chiaro cosa è più opportuno fare.”
    Come si impara la gestione dell´ansia e della paura? …e la gestione della rabbia?

    Ritengo che la prevenzione e la gestione dei rischi non debba riguardare solo i fattori presenti nel mondo esterno, ma anche quelli del mondo interno ad ogni singola persona chiamata ad operare in contesti difficili, considerata la natura stessa dei contesti e la loro elevata richiesta di risorse anche mentali.

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    • viviana
      viviana dice:

      Grazie mille Mattia per questa bella analisi e per aver messo in luce quanto l’aspetto psicologico sia importante nel lavoro del cooperante

      Rispondi

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