Open development: fantascienza o opportunità?
«È difficile darne una definizione esaustiva, ma l’open development è già realtà e tante sono le opportunità ancora da scoprire». Che cosa significa che la cooperazione allo sviluppo è open? Ce lo spiega Pelle Aardema, “technology evangelist” del non profit olandese, tra gli organizzatori dell’Open development camp che si terrà ad Amsterdam il prossimo ottobre.
[Serena Carta – dalla rubrica ICT4dev]
«Ho detto cose fantascientifiche?» ho chiesto a una cooperante dopo aver concluso il mio intervento su cooperazione futura e open development durante il workshop sulle ICT4D organizzato dalla Fondazione Think!. «No – mi è stato risposto – ma queste cose in Italia sono impossibili da fare».
Sarà vero?
Il mondo della cooperazione italiana è pronto ad abbracciare la cultura open, quella che prevede – per farla breve – scambio e circolazione di conoscenze, dati, contatti e risorse facendosi aiutare dal web, per favorire e accelerare la partecipazione, la trasparenza, l’inclusione? Probabilmente no, ché di esempi italiani da raccontare ancora non ce ne sono (correggetemi, se sbaglio!). Ma questo non ci impedisce di parlarne, di scoprirne di più, di osservare cosa sta succedendo in paesi dove il cambiamento lo si abbraccia e non lo si boicotta e imparare da loro.
Ecco perché mi sono rivolta all’olandese Pelle Aardema, che nella vita fa il consulente nel non profit per mettere la tecnologia a servizio del cambiamento sociale. Tra le altre cose, è il co-fondatore di Open for change – network di fondazioni e imprese sociali che promuovono la trasparenza, la collaborazione e l’innovazione nella cooperazione internazionale allo sviluppo. Visto che Pelle si presenta come advocate of openness (“sostenitore dell’apertura”), sono andata a chiedergli di aiutarmi a definire il concetto di open development.
«Open development è innanzitutto un atteggiamento culturale, un modo di comportarsi e di stare al mondo, di guardare alle relazioni – mi ha detto – È un derivato dello sviluppo sostenibile, perché rafforza quelle dinamiche bottom-up (dal basso) che ascoltano e rispettano i bisogni e le caratteristiche delle comunità locali. Ma è anche la diretta conseguenza di un sistema di organizzazioni ed enti supportati da finanziamenti pubblici e incaricati di lavorare per il bene comune: per chi li riceve, non dovrebbe forse essere normale rendicontare come ha speso questi soldi di fronte alla cittadinanza?».
Se dovesse spiegarlo a chi non ne ha mai sentito parlare, Pelle definirebbe l’open development attraverso 5 idee:
1. Inclusione e coinvolgimento dei partner locali
Grazie alle ICT e alle strategie di visualizzazione e storytelling, sono i partner locali a inviare informazioni di prima mano e “in diretta”, senza bisogno di mediatori, passando così da beneficiari ad attori del progetto. Uno strumento che supporta questo processo di coinvolgimento è, per esempio, AkvoRSR – Really Simple Reporting, un software che oltre a semplificare la visualizzazione dei progetti in cui è coinvolta un’ong, permette anche di condividere gli aggiornamenti dal campo attraverso un sistema di micro-blogging. Un altro esempio significativo ci è offerto dall’ong olandese Cordaid (qui la sua policy generale sull’open development): attiva nell’Africa sub-sahariana con progetti medici, l’organizzazione si serve della piattaforma open source Open RBF per raccogliere le valutazioni dei cittadini sui servizi ricevuti, analizzarle e condvidere le informazioni con le istituzioni e la stampa locali. Un modo per incrementare il protagonismo delle persone, ma anche per migliorare il monitoraggio e l’implementazione delle attività.
2. Business model adatto alle sfide del futuro
Le organizzazioni si trasformano in strutture snelle, flessibili e reticolari che dipendono sempre meno da uno staff fisso; si appoggiano a network di consulenti e professionisti di diversi settori e aree geografiche che collaborano “a progetto” nello sviluppo di strategie, azioni e contenuti nell’ottica della multidisciplinarietà. «Le risorse per mantenere la burocrazia e i “posti fissi” nei quartier generali delle ong vengono così dirottati alla ricerca e all’innovazione» ha precisato Pelle.
3. Non solo open data
Ma soprattutto open knowledge. Secondo Pelle «c’è tantissima conoscenza a nostra disposizione, pensa ai rapporti sui paesi che tutte le ong compilano prima, dopo e durante le loro missioni. Si tratta di una miniera di informazioni chiuse a chiave negli uffici delle capitali del Nord. Se solo fossero condivise – sapendo cosa è già stato fatto, cosa funziona, cosa no – sarebbe più facile definire i programmi di sviluppo». E gli open data? «Vedo molta più potenzialità nel coordimento tra attori diversi. La trasparenza a tutti i costi non è sempre utile e non sempre ha impatto, senza contare che le persone non sono interessate a conoscere tutti i dati, ma solo quelli rilevanti per le loro vite. Personalmente, preferisco concentrarmi su per cosa e come vengono spesi i soldi pubblici, quali risultati sono stati raggiunti. Per seguire i flussi di denaro (il follow the money di cui tanto si parla), bisogna prima comprendere il contesto. A volte i progetti falliscono perché si origina un conflitto nella regione, non perché i soldi non sono stati spesi bene. E l’obiettivo finale, al di là delle mappe interattive, deve essere quello di facilitare la discussione negli organi decisionali dentro e fuori le istituzioni, tra i parlamentari così come tra i cittadini». Per questo la rappresentazione dei dati fine a se stessa è uno sforzo dai benefici scarsi: intorno al numero bisogna raccontare una storia, a cui solo la collaborazione tra un cooperante, un giornalista e un designer può dare vita. «Trasparenza sì, ma a patto di diffondere conoscenza».
4. Tecnologia open source
Impiego di hardware e software aperti e a basso costo, perché la trasparenza e la rivoluzione culturale partono anche dagli strumenti di lavoro.
5. Relazioni umane al centro
Oltre alla tecnologia e ai servizi del web, la cultura open richiede incontri e scambi dal vivo: Pelle ha suggerito l’organizzazione e la partecipazione a festival, summer school, workshop, conferenze per uscire dai propri uffici e mescolarsi alla cittadinanza.
«La filosofia dell’open development non può che rafforzare il lavoro degli attori della cooperazione internazionale – ha concluso il nostro esperto – Anche i più resistenti devono arrendersi all’evidenza: la cooperazione del futuro è open e questo è il momento storico per cavalcare l’onda, andando incontro al cambiamento preparandosi, studiando e mettendosi in rete».
Sfoglia la presentazione – Pillole ed esempi di open development
**Le immagini inserite nell’articolo sono frammenti del video Riding the wave realizzato dall’International Civil Society Centre.
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