Tecnologie del futuro: universali, sostenibili, aperte
«A mia conoscenza, nessun progetto che coinvolge le tecnologie della comunicazione realizzato sino ad ora è da considerarsi di successo». Una provocazione arrivata da Tim Unwin, da molti ritenuto il “guru-dei-guru” delle tecnologie per lo sviluppo, durante il simposio sulle ICT4D che venerdì 16 maggio si è tenuto alla VU University Amsterdam. Il convegno ha riunito informatici, antropologi e scienziati politici per riflettere sul ruolo delle ICT nel contesto dello sviluppo oggi e domani. La sintesi degli interventi più significativi.
[Serena Carta – dalla rubrica ICT4dev]
Stefan Schlobach, coordinatore del master sulle ICT4D alla VU Amsterdam (una delle poche offerte formative esistenti in Europa, come si vede su questa mappa), ha aperto i lavori portando la prospettiva degli informatici che lavorano nelle ICT4D. «Coinvolgere gli informatici nelle ICT4D crea opportunità» ha dichiarato Schlobach, elencando i campi di ricerca su cui lui e i suoi colleghi si stanno concentrando:
1. interazione tra persone e computer (human computer interaction), in particolare attraverso i servizi vocali (voice user interface)
2. accesso alle informazioni di qualità in tutto il mondo (dal multilinguismo delle fonti alla content curation)
3. ICT sostenibili dal punto di vista dell’ambiente
4. protezione e sicurezza delle informazioni condivise sul web
5. gestione delle emergenze
6. uso dei servizi di internet e del web laddove non c’è connessione, sfruttando la sola rete GSM.
Appena ci si allontana da un punto di vista puramente tecnologico per adottarne uno più sociologico, la realtà dei diversi contesti appare in tutta la sua complessità. E la lista delle domande sull’uso delle ICT per lo sviluppo si allunga. Mirjam de Bruijn, professoressa di storia contemporanea e antropologia in università africane ed europee, ha introdotto nella discussione l’approccio delle scienze sociali. Presentando i risultati della ricerca “Mobile Africa Revisited” condotta tra il 2006 e il 2013 in Mali, Ciad, Niger e Camerun, la de Brujin si è concentrata sulle dinamiche sociali e sui meccanismi di auto-sviluppo attivati dall’utilizzo della tecnologia, e in particolare dei telefoni cellulari. «Nel continente africano la copertura delle reti GSM si è diffusa a macchia d’olio nel giro dell’ultimo decennio e oggi possiamo dire che quasi tutti hanno la possibilità di usare un telefono cellulare: anche quando nel proprio villaggio non c’è copertura, basta muoversi di qualche km per trovarla – ha affermato la ricercatrice – Ma in che modo questa tecnologia è entrata all’interno di società che hanno le loro proprie regole di comunicazione, il loro linguaggio, la loro grammatica? Cosa succede quando le persone entrano in contatto con le ICT e possono accedere a informazioni spesso prodotte in altre parti del mondo? Quali trasformazioni avvengono a livello individuale e comunitario? E, infine, come cambiano le barriere e il concetto di mobilità, in un continente per definizione mobile e da sempre caratterizzato da diaspore e migrazioni?».
Domande per cui è difficile trovare delle risposte esaustive e puntuali, dal momento che ogni contesto ha specificità proprie e studiare i mutamenti delle società in relazione a strumenti tecnologici che cambiano di continuo richiede tempo. Quello che Mirjam de Bruijn ha però evidenziato come conclusione del suo lavoro di ricerca è che le comunità etniche e religiose transnazionali da lei osservate sono state rafforzate dall’uso dei telefoni cellulari, che permettono ai membri di partecipare ai network di appartenenza senza dover fisicamente attraversare le frontiere.
Stéphane Boyera, consulente nel campo delle ICT4D e partner nel progetto Voices (cfr video in basso), ha evidenziato i limiti della cosiddetta “mobile revolution”: limiti percepiti in maniera direttamente proporzionale al livello di “povertà” della classe sociale di appartenenza. Vediamoli insieme:
1. accesso alla tecnologia: in Kenya (che insieme a Nigeria e Sud Africa e uno degli stati più tecnologicamente avanzati del continente), il 53% dei telefoni cellulari sono 2G (prevedono cioè le chiamate e l’invio di sms); gli smartphone (con cui ci si può connettere a internet) rappresentano il 9%
2. cultura e profilo degli utenti: in Mali il tasso di alfabetizzazione è del 26%, difficile immaginare quindi che gli utenti posseggano le conoscenze sufficienti per un uso base delle ICT
3. barriera linguistica: la maggior parte dei servizi ICT è stata sviluppata in inglese, il che ne rende difficile la fruibilità in zone in cui si parlano lingue diverse o dialetti locali
4. bassi salari: e cioè bassa disponibilità economica per acquistare strumenti o servizi
5. spiccate differenze tra aree rurali e urbane e tra classi sociali: «Ovunque nel mondo, è assai probabile che chi è parte dell’élite possegga tablet o smartphone sempre connessi – ha concluso Boyera – Più si scende la piramide sociale e più questi dispositivi sono assenti».
Secondo l’esperto, un possibile ponte per il superamento di queste barriere è rappresentato dalla voice based technology (basata sul riconoscimento vocale) oggi sempre più utilizzata nella cooperazione internazionale.
A testimoniare l’efficacia di questa tecnologia in Mali e in Burkina Faso è stato chiamato Amadou Tangara, innovatore di fama internazionale nello sviluppo delle ICT per lo sviluppo rurale. Tangara ha inventato tre progetti che, utilizzando l’interfaccia vocale dei telefoni cellulari in connessione con le radio comunitarie, permettono di mettere in relazione produttori agricoli e potenziali clienti (RadioMarché), raccogliere storie da citizen journalist (Foroba Blon) e annunciare eventi o convocare riunioni (Tabale). «Nella vita quotidiana le ICT sono indispensabili per informarsi, commerciare, guadagnare denaro, vivere meglio – ha detto Tangara – Ho quindi immaginato una tecnologia vocale che permettesse di fornire servizi web indipendentemente dalla lingua e dal grado alfabetizzazione dell’utente. I tre progetti hanno favorito l’inclusione sociale di donne e giovani e hanno reso più dinamico il commercio».
Concludiamo infine questa carrellata con le provocazioni di Tim Unwin. «Quali sono i meriti delle ICT per lo sviluppo? Il loro utilizzo sta davvero aiutando i più emarginati oppure sta solo aumentando le differenze tra ricchi e poveri?» ha domandato alla platea lo studioso, secondo cui «la rivoluzione tecnologica di cui tanto si parla è in realtà trainata dagli interessi del settore privato, l’unico ad averne il controllo finale e a guadagnarci». Unwin ha invitato a riflettere sul tipo di sviluppo che si vuole promuovere – «A quale tipo di sviluppo guardiamo? Alla crescita – economica, della libertà, dei diritti umani – oppure alla riduzione delle disuguaglianze?» – affermando che «il concetto di crescita contiene in sé il potenziale aumento delle differenze, anche nei paesi più benestanti» e scagliandosi contro un concetto di povertà che è stato «istituzionalizzato e assolutilizzato in nome di una modernità simbolica tipizzata dalle ICT». Ha quindi elencato quelle che per lui sono le priorità nell’agenda morale delle ICT4D del futuro, affinché possano essere davvero trasformative:
1. una regolamentazione statale che limiti le ambizioni del settore privato e che tuteli i cittadini (es. maggior sostegno alle iniziative open source, protezione della privacy, bilanciamento delle partnership pubblico-privato e coinvolgimento della società civile)
2. innovazione tecnologica nell’interesse delle persone (universale, a basso costo, aperta, sostenibile, disegnata sulla base dei bisogni delle comunità)
3. nuovi modelli democratici basati sulla giustizia sociale e la redistribuzione collettiva piuttosto che sulla crescita economica individuale
4. affermazione di diritti ma anche di responsabilità, perché «l’accesso alle ICT non è un diritto umano: questo è solo quello che vogliono le aziende private».
Lo storify della seconda parte del convegno
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Photo credits World Bank Photo Collection