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Nasce ImpactSkills, il nuovo spazio digitale per lavorare nel sociale

Dopo oltre 10 anni di lavoro congiunto tra ong ed enti dell’innovazione tecnologica per supportare l’uso delle tecnologie digitali nella cooperazione allo sviluppo, 102 percorsi formativi realizzati, oltre 7 mila persone coinvolte in 54 paesi, Ong 2.0 è entusiasta di presentare oggi la sua nuova avventura: ImpactSkills , il nuovo spazio digitale appena nato per acquisire competenze, incontrarsi, progettare e lavorare nel Terzo Settore e nella Cooperazione Internazionale in Italia.

di Silvia Pochettino  

Stiamo uscendo – speriamo – da due anni di pandemia in cui vivere lo spazio digitale è diventato la normalità, forzata, di tutti. E’ stata molto dura perché ci ha obbligato a un cambiamento radicale, repentino e spesso totalizzante del nostro modo di vivere impedendoci di mantenere quell’equilibrio tra vita online e offline che è assolutamente necessario per il benessere fisico e psicologico.

Tuttavia ha permesso a molte categorie di persone, enti e istituzioni, prima ampiamente avulse dal digitale, di imparare rapidamente l’uso di molti strumenti e soprattutto di acquisire la consapevolezza che si possono fare moltissime più cose online che guardare i social e che, in alcuni casi, questo è estremamente conveniente. Noi come Ong 2.0 l’avevamo intuito oltre 10 anni fa, quando abbiamo iniziato a realizzare i primi webinar collegando persone da tutte le parti del mondo, in anni in cui la stessa parola webinar era misteriosa e sconosciuta nel mondo non profit.

Il processo di evoluzione è stato lento. Fino all’arrivo della pandemia. Con il Covid in pochi mesi l’Italia, come quasi tutto il mondo, ha fatto un balzo tecnologico che avrebbe richiesto ancora parecchi anni. Nel bene e nel male.

E’ per questo che anche noi come Ong 2.0 abbiamo sentito il bisogno di ripensarci e fare dei passi avanti creando uno spazio digitale più articolato e performante al servizio del lavoro sociale, ma volutamente in controtendenza con l’automatizzazione che molta digitalizzazione porta con sé.  Abbiamo voluto creare uno spazio che pur essendo totalmente digitale recuperi in modo molto forte la relazione umana, di cui abbiamo sentito tanto la mancanza in questi due anni.

Prima di tutto siamo persone.

E ImpactSkills è un luogo di incontro tra persone (che ormai sanno che possono relazionarsi in modo autentico anche attraverso il web) dove  chi vuole inserirsi nel mondo sociale o è già un operatore ma vuole rinnovare le sue skills e ampliare i suoi contatti, può avere colloqui individuali face to face, essere seguito da un mentor o da un coach, partecipare a percorsi formativi live online dove si ricreano le dinamiche di aula fisica, mettersi in gioco nei weblab, laboratori  applicativi e pratici per la produzione di risultati concreti subito. Oppure può partecipare alle  community tematiche di social learning, scambio e co-progettazione. O, meglio ancora, può fare tutte queste cose insieme 🙂

 

Insomma un campus virtuale per l’impegno sociale dove speriamo nasceranno anche nuove relazioni, progetti e idee. Siamo solo all’inizio, è evidente, e la direzione si rinforzerà con la partecipazione delle persone e le idee che loro stessi porteranno. Sappiamo però anche che la tecnologia continua a evolvere velocissima e questo ci permetterà a breve di implementare nuove funzionalità e fare cose che forse oggi neanche ancora immaginiamo.

In questo momento la nostra rete di esperti è la nostra forza: persone altamente qualificate, con una lunga esperienza alle spalle, che hanno fatto dell’impegno sociale la loro scelta di vita e la loro professione. Esperti di tecnologie digitali, progettazione, comunicazione e fundraising, mentoring e coaching e molto altro. Abbiamo avviato partnership con numerose associazioni, ong di cooperazione internazionale e startup a impatto sociale in cui è possibile realizzare tirocini e stage, per iniziare o per mettere a frutto le competenze acquisite.

In breve con Impactskills vogliamo vivere lo spazio digitale al meglio, aiutare i giovani a entrare negli enti sociali e dare il nostro piccolo contributo per far crescere un terzo settore professionale, smart e sempre più efficace.    

Gli enti fondatori di Impactskills rappresentano tutta l’Italia: ACCRI Trento e Trieste, CELIM Milano, CISV Torino, COPE Catania, CVCS Gorizia, Informatici senza frontiere Treviso, LVIA Cuneo e Torino, Progettomondo Verona, Social Innovation Teams Milano. I soci fondatori sono Silvia Pochettino, giornalista e formatrice; Paolo Landoni, professore al Politecnico di Torino; Rosa Maria Manrique, project manager. Gli enti partner: Aspem (Cantù), Amici dei Popoli (Bologna e Padova), Comi (Roma). Gli enti con cui già si collabora per la realizzazione di iniziative e prodotti: Cospe (Firenze), Gnucoop (Milano), Coaching Inside School (Milano), Idea Comunicazione (Roma), SAA- School of Management (Torino),  TechSoup, Università di Torino

Il coaching per aiutare chi aiuta

Partiamo da una storia per scoprire il mondo del coaching. Da un racconto, che arriva dal mondo del non profit, della cooperazione internazionale, dove normalmente non ci sono progetti di coaching strutturati e dove il coaching non viene considerato una pratica diffusa come strumento di sviluppo.

Da questa storia nasce il progetto avviato da Ong 2.0, in stretta collaborazione con Inside Coaching School, con l’obiettivo di sviluppare gradualmente l’apprendimento e la contestualizzazione della cultura del coaching, intesa come “approccio e strumento”, funzionale a sostenere lo sviluppo delle persone nella gestione del loro ruolo.

A raccontarci questa storia è Paolo Romagnoli che da più di 20 anni si occupa di risorse umane con una specifica competenza nel settore non profit. È anche consulente, formatore e orientatore in diversi enti, in particolare del terzo settore.

 

Paolo, tra coaching e cooperazione che nesso c’è?

C’è un’evidenza nella cooperazione: lo sguardo e l’azione sono sempre stati concentrati sui progetti e sull’aiuto agli altri. Ma chi cura chi cura? Questo è il punto. Spesso gli operatori che lavorano nella cooperazione vivono un senso di abbandono e di scarsa attenzione unito ad un impegno consistente, totalizzante, rischioso e spesso al limite. Chi opera in questo contesto, sia all’estero sia in Italia, pur coprendo ruoli e incarichi di grande responsabilità e delicatezza è seguito e sostenuto solo parzialmente nel suo operare e nella crescita professionale, dando spesso per scontato le capacità e la “tenuta” nel tempo.Il coaching è una risposta tecnica e strutturata per sopperire a questa mancanza. Le forti motivazioni connesse all’identificazione con valori, cause sociali e l’impegno per gli altri, che sono sempre stati driver fondamentali di ingaggio – oggi – possono essere arricchite e rafforzate dal valore aggiunto dei percorsi di coaching.

Cosa è concretamente il coaching?

Il coaching è definibile come una partnership tra coach e coachee (così si definisce chi riceve un’azione di coaching) che, attraverso un processo creativo, stimola la riflessione, ispirandoli a massimizzare il proprio potenziale personale e professionale.

Non è psicoterapia, counseling, né consulenza o mentoring. Ha specificità interessanti che possono funzionare meglio di altri approcci nella cooperazione. Alcune delle sue caratteristiche vincenti sono azione in partnership, responsabilità e libertà di decisione del coachee, processo creativo, massimizzazione del potenziale personale e professionale, concretezza.

Consiglieresti ad un cooperante che ha dei problemi da risolvere, di rivolgersi ad un coach?

Certamente e per diversi motivi: il coaching è molto democratico non ti dice cosa devi fare, non ti da la pappa pronta, ma ti aiuta creativamente a ritrovare dentro te stesso le ragioni e gli stimoli per cambiare e migliorare. E’ molto concreto: ogni incontro finisce con una azione che il coachee sceglie e su cui si misura.

E poi è tutto proiettato nel futuro. E’ un approccio espansivo che fa ritrovare motivazioni e voglia di stare bene. In un mondo della cooperazione dove i valori, le motivazioni le energie, nonostante tutto, sono ancora ampiamente presenti, si tratta solo di farle esprimere ancora e meglio e l’approccio coaching è sicuramente un bel strumento.

Se uno decide “di provare” come può fare?

ONG 2.0 da sempre all’avanguardia nel cogliere le esigenze di una cooperazione che cambia, ha intuito questa esigenza di coaching e a breve sarà possibile con un semplice click sul sito  accedere a percorsi con coach esperti certificati. Dopo l’estate, per chi fosse interessato a imparare un approccio coaching da utilizzare nel suo lavoro e nella sua vita, potrà iscriversi ad un corso propedeutico fatto apposta per questo.

La proposta, ideata e realizzata da Ong 2.0 in stretta collaborazione con Inside Coaching School, si articola in tre offerte:
– un webinar introduttivo al coaching per il Terzo Settore e la Cooperazione Internazionale
– uno sportello di coaching, gestito da coach esperti e certificati, attivo tutto l’anno
– un seminario introduttivo al coaching ”Project Manager as a Coach nella Cooperazione Internazionale” progettato secondo logiche interattive ed esperienziali.

Paolo qual è l’ultimo consiglio che vuoi dare?

Ho avuto l’opportunità di fare un percorso e diventare coach. Ho scoperto come aiutare il coachee concretamente a traguardare il ponte verso il futuro. In partnership, con uno stile concentrato sul coachee condizioni che potenziano l’autosviluppo e aprono a nuovi insight.

Nel mio mondo, dove lavoro da anni, siamo sempre capaci, nonostante tutto, di cavarcela in situazioni complesse. Come posso dimenticare i momenti in Africa in cui abbiamo inventato dal nulla e creativamente delle soluzioni adatte ad un contesto difficile. Ricordo ad esempio quando abbiamo attivato, in periodo di carestia, attività di lavoro socialmente utile per i nostri beneficiarli dove l’emergenza era sempre stata gestita semplicemente con la consegna di sacchi di farina. In apparenza piccole cose ma che hanno fatto la differenza in termini di responsabilità e di approccio. A volte hanno addirittura cambiato e migliorato progetti. Chissà quante altre situazioni i miei amici e colleghi cooperanti potrebbero raccontare. Ma è un tesoro spesso nascosto e mi pare che si sprechi l’alto potenziale che c’è.

L’approccio coaching l’ho sentito nello stesso tempo capace di valorizzare ciò che si fa e capace di potenziare ciò che si dovrà fare a partire da ciò che si è.

Non mancano i valori e la dedizione nel mondo della cooperazione internazionale. Manca un luogo dove dirselo e dove riflettere su come mettere a frutto ciò che si sente e ciò che si è imparato trovando così nuove risposte e nuove soluzioni per il futuro.

Il coaching per me è un’arte potente e affascinante che sono sicuro darà ottimi frutti agli operatori della cooperazione.

 

 

 

I primi 5 passi per orientarsi nella cooperazione internazionale

Di Anna Filippucci 

Chi si affaccia per la prima volta al mondo della cooperazione internazionale si sente sovente perduto: spesso non è chiara la struttura organizzativa del settore, non si conoscono le differenze tra gli enti che vi operano, né le abilità e le conoscenze richieste per ricoprire una posizione professionale. Da circa un anno abbiamo iniziato a offrire, con un notevole successo, un servizio di mentoring per chi si avvicina a questo universo lavorativo. Ma a cosa serve il mentoring? Ne abbiamo parlato con Diego Battistessa, esperto di Cooperazione e Diritti Umani e mentor del percorso Lavorare nella Cooperazione Internazionale.

Ecco i consigli di Diego per farsi strada tra questi interrogativi

  • Darsi le basi necessarie per porsi le domande giuste.

Molto spesso le domande che ci si pone avvicinandosi al mondo della cooperazione internazionale sono viziate da una mancanza di conoscenza profonda del settore, della sua architettura complessa e dei profili professionali richiesti. 

Il risultato è che le domande non risultano realistiche, sono generiche o addirittura controproducenti. 

Solo partendo dalla consapevolezza che occorre farsi le domande giuste si può cominciare ad immergersi in questo mondo. Il mentoring permette appunto di svolgere questa fondamentale operazione preliminare. 

  • Realizzare una mappatura delle organizzazioni. 

Il mondo della cooperazione è complesso. Il settore lavorativo è enorme e diversificato al suo interno: realizzare una mappa degli attori, significa iniziare ad orientarsi.

Gli attori sono molteplici: dalle organizzazioni multilaterali, alle università, le aziende, le ong agli enti del terzo settore in generale. E di questi ultimi occorre conoscere chiaramente le caratteristiche, gli obiettivi e la funzione (sono multimandato, o monomandato? In quali contesti specifici operano?). 

  • Riuscire a capire e focalizzare quali sono i profili professionali spendibili all’interno del settore. 

A quale profilo devo aspirare per raggiungere il mio obiettivo? A seconda che si voglia lavorare in contesti di emergenza, oppure nel settore migrazioni/accoglienza, o ancora in progetti di sviluppo specifici, occorrono conoscenze e competenze ogni volta diverse e specializzate. 

Tutte le esperienze pregresse sono utili, non esiste un titolo di studio specifico o una sola professionalità adatta alla cooperazione internazionale: occorre però saperle ottimizzare verso uno dei tanti profili professionali di questo settore. In questo caso, il mentoring permette di fare il punto sugli interessi e le capacità di ognuno per capire quale profilo professionale sia il più adeguato. 

  • Capire come creare un vero e proprio piano di sviluppo di carriera che prenda in considerazione aspettative, ambizioni, stato attuale delle cose, punti di miglioramento e possibili problematiche a corto breve termine nello sviluppo della carriera prescelta.

Questo aspetto passa per una visione realistica degli elementi: non significa non essere ambiziosi, ma vuol dire che, insieme al mentor, si svolge una discussione reale sulle potenzialità attuali per capire quali sono i punti di forza e i miglioramenti possibili. E’ possibile essere la versione migliore di noi stessi solo ed esclusivamente se si raggiunge una forte consapevolezza di tutti questi elementi.

  • Orientamento verso le diverse formazioni, più o meno lunghe, universitarie o no, in che lingua, dove.

Ultimo punto, ma non per importanza. Occorre svolgere un vero e proprio lavoro di orientamento. Le formazioni multidisciplinari offerte per entrare e approfondire una posizione professionale nel mondo della cooperazione internazionale sono moltissime! Con l’aiuto del mentor, è possibile esaminare le diverse opzioni e valutare il percorso più adatto in base agli obiettivi e gli scopi prefissi e il raggiungimento degli obiettivi di carriera di ciascuno. 

Vuoi lavorare nel Terzo settore? Gioca con noi e scopri il percorso più adatto a te

Le figure professionali che popolano il Terzo settore sono tante.

C’è, ad esempio, chi è impegnato sul terreno e lavora a stretto contatto con le comunità locali, si occupa di coordinare gli aspetti logistici e amministrativi, ma anche di monitorare e valutare l’impatto del proprio lavoro. Chi ricopre ruoli manageriali e di coordinamento, si occupa di rendere efficienti i flussi di lavoro e di valorizzare al massimo il talento di ognuno dei propri colleghi. Chi si occupa di comunicazione e dà visibilità alle attività della propria organizzazione, ne diffonde messaggi e valori fondamentali. Chi si occupa di raccolta fondi e con il suo impegno rende possibile il funzionamento dell’organizzazione, procurando le risorse economiche e non solo, necessarie alla realizzazione delle diverse attività. Chi si occupa d’innovazione sociale e applica metodologie e approcci creativi sempre nuovi per avere un impatto positivo sulla società, assicurando efficienza e sostenibilità. Chi è esperto di tecnologie digitali (ICT4D) e si occupa di valutare dove, quando e come questi strumenti possono apportare un beneficio reale alle attività sul campo.

Ognuna di queste figure richiede competenze specifiche e, per tenersi aggiornati, non si smette mai di studiare e di sperimentare approcci e metodologie nuove.

Di seguito ti proponiamo un gioco, un piccolo test per scoprire quale di questi settori ti rappresenta di più. Non ha alcuna rilevanza scientifica, ma ti permetterà di comprendere meglio quali sono alcuni dei possibili profili professionali più richiesti nel settore e quali sono le relative competenze richieste.

Clicca sull’immagine per iniziare a giocare.

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La prima guida pratica per chi vuole fare il cooperante

Appena uscito il nuovo libro di Diego Battistessa “Vorrei fare il cooperante: come trasformare un sogno in una professione” un’agile guida pratica per chi si vuole avvicinare a questa professione, con consigli, esempi e buone pratiche. Realizzata in collaborazione con Ong 2.0 e Social Change School

di Silvia Pochettino

Chi è un cooperante? Cosa fa? Che competenze deve avere? Quanto guadagna? Ma soprattutto perché parte? A discapito delle molte polemiche che hanno imperversato negli ultimi mesi riguardo questo settore sono sempre di più i giovani, e meno giovani, interessati a impegnarsi nel settore della cooperazione internazionale. Ma spesso con idee molto confuse. Si ondeggia tra l’immagine favolistica dell’operatore umanitario eroico a quella dissacrante del “buonista” sfigato che – in sostanza – cerca lavoro nei paesi poveri perché qui non lo trova.
Il cooperante non è né l’un né l’altro. 
Lo spiega bene Diego Battistessa, docente di Ong 2.0 ed esperto di cooperazione internazionale con molti anni di terreno alle spalle, nel libro appena uscito “Vorrei fare il cooperante. Come trasformare un sogno in una professione, una guida agile dove trovare strumenti, buone pratiche, consigli e riflessioni per dipingere i contorni di una professione tanto bella quanto difficile da spiegare. Il cooperante non è uno che “aiuta”, così come la cooperazione non è “solidarietà”, almeno non nel senso tradizionale del termine, che presuppone ci sia qualcuno in difficoltà e qualcun altro che è solidale con lui. Cooperazione, come in realtà dice il termine stesso, è co-operare, ovvero lavorare insieme per affrontare le sfide del mondo di oggi.

Il libro, realizzato in collaborazione con Ong 2.0 e Social Change School, è  nato dall’esperienza di cinque anni di blog sulla cooperazione in cui Diego ha risposto a centinaia di domande su questa professione ed è strutturato in capitoli brevi, ognuno dei quali risponde a domande precise. “Non pretendo di dare risposte certe. – dice Battistessa – Però spero di poter aiutare molte persone a prendere delle decisioni ragionate, basate su informazioni reali, su dati,  esperienze concrete. In questo settore, non esiste una formula, un algoritmo che se applicato correttamente ci permette di stabilire che diventeremo dei cooperanti professionisti, lavorando nella regione del mondo che più amiamo e con l’organizzazione che più rappresenta i nostri valori”

La professione del cooperante internazionale è una professione difficile, che non può essere improvvisata, che è lungi dal basarsi solo “sulla buona volontà” come si credeva un tempo, o sulle capacità tecniche, come si credeva dopo. E’ una professione che richiede competenze a 360 gradi, tecniche certo, ma anche e soprattutto sociologiche, antropologiche e umane. “Dire cooperazione internazionale senza specificare niente di più, equivale a dire “sport” senza aggiungere nient’altro. Dire di voler lavorare nella cooperazione internazionale senza aver in mente una funzione precisa e come dire di voler partecipare alle olimpiadi senza avere in mente nessuna disciplina sportiva in particolare”.

Perché  – va detto – il rischio di fare più danno che altro è sempre in agguato, e tuttavia in un mondo sempre più interconnesso, dove le tecnologie digitali superano tutti i confini, i capitali fluttuano senza sosta, continuare a fermare le persone alle frontiere, verso il nord o verso il sud è un controsenso. Ma prepararle adeguatamente, invece, è un aspetto fondamentale. In questo senso “Vorrei fare il cooperante” è un libro unico nel suo genere:
“Perché non esistono manuali che ci spiegano come avvicinarci ad un settore così difficile da capire come quello della cooperazione internazionale – dice ancora Diego – Un settore che racchiude un universo di terminologie, rituali, norme non scritte, luoghi comuni, rischi, avventure ma soprattutto che ci da l’opportunità di sentirci parte di un cambiamento universale, di un movimento internazionale di persone che non accettano la realtà per quello che è e decidono di diventare catalizzatrici della trasformazione verso “un altro mondo possibile”.

 

Photo credits: Pixabay

 

La Theory of Change per la cooperazione internazionale

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La Theory of Change per la cooperazione internazionale: una guida introduttiva.

Dopo il successo della prima edizione del 2016 e sulla spinta di un crescente interesse sul tema, Info-Cooperazione ha pubblicato nei primi giorni di luglio una guida introduttiva alla Theory of Change (ToC) nell’ambito della cooperazione.

La guida presenta i rischi e le opportunità della Toc, con particolare attenzione all’ambito della progettazione e della definizione strategica. Una serie di casi studio e di risorse rendono questa guida ancora più pratica e utile per il lettore.

 

A cura di Christian Elevati

Anno: 2017

Lingua: italiano

Scarica la guida QUI

Il cooperante, una figura in continua evoluzione

Quello del cooperante era, fino a qualche tempo fa, un lavoro fuori dall’ordinario. Oggi si sta trasformando nella scelta di un numero sempre più alto di persone. Con competenze e caratteristiche sempre nuove. Ne parliamo con Diego Battistessa, cooperante e attualmente coordinatore accademico presso l’Istituto di studi internazionali ed europei “Francisco de Vitoria” dell’università Carlos III di Madrid.

di Camilla Fogli

Con l’aumento di situazioni critiche e di emergenza, aumenta anche la domanda nel mondo della cooperazione, un settore in crescita che si sta aprendo e trasformando, e con lui anche chi ne fa parte. Questo non vuol dire però che diventare un operatore della cooperazione internazionale sia una decisione facile o banale, anzi. Si tratta di un lavoro che richiede un impegno costante, per gestire non solo la complessità delle relazioni che si intrecciano tra i vari attori, ma anche per stare al passo con una continua necessità di adattamento e aggiornamento.

Al riguardo, il portale Open Cooperazione fornisce una panoramica aggiornata al 2015 dei dati sulle principali ong italiane. Dai dati presentati, emerge l’importanza che questa parte del settore no-profit ha acquisito negli ultimi anni: i bilanci di 115 ong raggiungono quasi mezzo miliardo di euro, ma soprattutto il totale delle risorse umane impiegate, in Italia e all’estero, corrisponde a più di 16mila persone, senza contare gli oltre 80 mila volontari impegnati in oltre 2500 progetti sparsi in un centinaio di paesi.

Le risorse umane impiegate dalle 115 ong italiane censite da Open Cooperazione

Per riuscire a comprendere un po’ meglio questa realtà, così dinamica e varia, ci siamo fatti aiutare da un esperto del settore, Diego Battistessa, che sarà il docente del webinar gratuito di Ong 2.0 “Cooperazione internazionale: strumenti e buone pratiche per operare nel settore” e del corso “Professione cooperante: da dove cominciare”.

“Il primo punto da chiarire è che non esiste un unico percorso, una formula matematica che se applicata correttamente ti fa diventare cooperante internazionale. In questi anni in giro per il Mondo ho conosciuto colleghi e colleghe con profili professionali e storie di vita completamente diverse tra di loro”

Secondo Battistessa “la cooperazione è uno strumento molto forte, ha la capacità di offrire, attraverso il lavoro, le nostre stesse possibilità a qualcuno che non le ha”, quindi chi sceglie di fare il cooperante, soprattutto all’inizio, è perché vuole sentirsi parte della messa in pratica di un ideale, di un cambiamento in positivo. Come in tutte le cose, la giovane età e l’inesperienza portano ad un grande entusiasmo, che non guarda in faccia nessuno e che vuole avere un riscontro diretto, un risultato immediato. Maturando, ci spiega poi Diego, questo entusiasmo si trasforma e si affina, gli anni e l’esperienza portano ad una maggiore consapevolezza e pazienza, ma soprattutto ad una reale comprensione dei meccanismi di condivisione dei progetti e all’importanza non solo degli obiettivi comuni ma anche del compromesso. La cooperazione cambia e così cambiano i cooperanti. La prima cooperazione, quella di 20 anni fa, non avrebbe mai accettato di lavorare con le grandi multinazionali. Ora, invece, grazie ad alcuni provvedimenti presi in seno alle Nazioni Unite, così come in Italia con la riforma del 2014, si è arrivati ad un’azione collaborativa tra cooperazione e settore privato, senza il quale sarebbe impensabile crescere e riuscire a portare un cambiamento tangibile.

Per quanto riguarda, invece, le difficoltà incontrate da chi vuole intraprendere questo percorso, sono in particolare due quelle che Diego sottolinea. Una prima difficoltà comune a tutti i cooperanti è quella dell’età. A quanti anni si è pronti per partire? A quanti invece sarebbe meglio lasciare il terreno e passare alla cosiddetta cooperazione dietro le quinte? Non c’è una risposta giusta o sbagliata a queste domande, dipende molto dalla propria esperienza personale. Anzitutto, è proprio il terreno a compiere la prima selezione. Fare il cooperante sul campo è un lavoro duro, nel quale non basta essere altamente preparati, è un lavoro che richiede sacrificio e capacità di adattamento e, solitamente, i limiti – fisici o mentali – di una persona vengono fuori alla prima esperienza. Insomma, non tutti sono portati ad un impegno del genere, a prescindere dall’età o dalla propria motivazione personale.
Un’altra grande difficoltà nella scelta di fare cooperazione sul campo è poi quella legata all’aspetto umano di questo mestiere. Da un lato ci si trova coinvolti e inglobati in una nuova “grande famiglia”, come la definisce Diego, quella di tutti i cooperanti e le persone coinvolte che si incontreranno nel corso del progetto.

“Fare cooperazione vuol dire entrare a far parte di una tribù, costruita su aneddoti in comune, piccoli villaggi sperduti in cui tutto il mondo è stato. Una grande famiglia con il suo linguaggio e la sua simbologia. E quando cerchi di uscirne, quando ti dedichi a fare altro, inevitabilmente ti manca”

Dall’altra, però, le relazioni al di fuori sono sempre più fragili e complicate dalla distanza e dalla non condivisione delle esperienze. Può essere davvero difficile riuscire a spiegare, da un lato, e a comprendere, dall’altro, cosa prova un cooperante sul campo, cosa vuol dire vivere il costante effetto fisiologico dell’adrenalina e dell’imprevisto. Chi decide di fare il bambini cooperazionecooperante sa già che, nel bene e nel male, dovrà cambiare continuamente le sue persone di riferimento, quegli affetti che diventano punti fermi nella vita di una persona e di cui ognuno di noi ha bisogno. Insomma, a un certo punto ci si chiederà quando e per chi valga la pena fermarsi. Dall’esperienza di Diego, a riuscire a far convivere cooperazione e famiglia sono soprattutto quei cooperanti che trovano la loro casa in uno dei luoghi in cui si sono trovati a lavorare. A tal proposito, ci riporta la riflessione di un collega che l’ha colpito in modo particolare. Anche lui cooperante per alcuni anni, è arrivato ad una conclusione semplice ma efficace: prima di iniziare questo mestiere, che diventa irrimediabilmente anche un vero e proprio stile di vita, bisogna avere un piano, bisogna già sapere quando si vorrà lasciare il terreno, perché, come Diego ci ripete più volte, il terreno è additivo, e non ti lascia più.
A mettersi in mezzo è poi, molto spesso, anche quel senso di estraniamento e inadeguatezza che si prova una volta tornati dopo un periodo sul campo. Reintegrarsi nella vita di tutti i giorni non è infatti così banale, anzi. Sul terreno si vive in un contesto instabile, in cui nonostante esistano regole e protocolli precisi, a farla da padrona è principalmente l’improvvisazione. Tornare alle regole di un ufficio o alla tranquillità della routine quotidiana non sempre è scontato ed è anche per questo che, alla fine, in tanti decidono di ripartire.

La domanda che a questo punto sorge spontanea è dunque cosa ci si aspetti da un cooperante, quale sia il profilo ideale, oggi e nel futuro. Al riguardo Diego non ha dubbi: “alta professionalizzazione”. Poi ci spiega meglio: il nuovo mondo della cooperazione è un contesto che si sta specializzando e sta diventando sempre più competitivo. Una volta era difficile trovare qualcuno che volesse partire e quindi spesso chi decideva di fare il cooperante acquisiva la maggior parte delle competenze più tecniche in loco, ora non è più possibile. Anzitutto, ci troviamo in un contesto in cui non ci si può più semplicemente arrangiare; a partire dalle lingue, la cui conoscenza professionale è oggi data per scontata, per finire con specifiche competenze tecniche, come ad esempio il PCM (Project Cycle Management). Un buon esempio sono anche le ICT, le tecnologie della comunicazione e dell’informazione applicate allo sviluppo, ormai fondamentali, di cui si richiede una conoscenza professionale e trasversale. Una volta la tendenza era prendere più specialisti per diverse mansioni, ora assistiamo invece ad una definizione e professionalizzazione del lavoro del cooperante, tale per cui la tendenza delle organizzazioni è quella di limitare sempre di più il personale expat per utilizzare il capitale umano locale.

In sostanza, Diego ribadisce più volte il fatto che non si tratta di  un lavoro come tutti gli altri ma, come dice lui, “è un lavoro che ti chiede di essere quello che fai”.

Photo Credit: Diego Battistessa

Infografica: Open Cooperazione

Approccio di genere; atout indispensabile per la cooperazione

Donne e uomini non sono uguali. Una banalità? Non se si vuole lavorare seriamente nei processi di sviluppo.

di Silvia Pochettino

Sia ONU che Banca mondiale, come riportato nel documento Uguaglianza di genere ed empowerment delle donne del Ministero Affari Esteri italiano, dimostrano chiaramente che la marginalizzazione del ruolo delle donne impedisce la sostenibilità delle azioni di sviluppo.
A livello di politiche internazionali l’ultimo decennio è stato fondamentale nel riconoscimento del concetto di genere, elaborato già negli anni ‘70 e poi diventato centrale nelle politiche di sviluppo con la Convenzione per l’eliminazione di ogni discriminazione sulle donne e in seguito la Conferenza di Pechino del 1995.

Eppure parlare di approccio di genere non significa semplicemente parlare di promozione del ruolo della donna.
Lo chiarisce subito Luisa Del Turco, grande esperta di politiche di genere, direttore del Centro Studi Difesa Civile e docente al prossimo corso di Ong 2.0 su “Approccio di genere nella cooperazione internazionale”.

Spiega Luisa: “L’approccio di genere non è una disciplina, non è un ambito di intervento come tanti altri nella cooperazione internazionale, come sanità, agricoltura, assistenza umanitaria, recupero culturale, ecc..è un approccio trasversale a tutti gli ambiti, un modo di guardare le cose”. Si tratta in concreto di “una serie di strumenti che permettono di analizzare ogni attività ponendo attenzione continua alle differenze, alle attitudini, alle competenze di uomini e donne”.
Un esempio di strumento? L’analisi di genere. “Quando lavoro in un paese con un’organizzazione locale o anche quando guardo la mia stessa ong” continua Del Turco “se indosso la lente di genere, vado ad analizzare dove ci sono uomini e donne, in che percentuale, quale ruolo ricoprono, che cosa fanno, se partecipano attivamente o no all’azione di intervento. Sulla base di questa analisi è possibile valutare qual è il soggetto meno coinvolto, o se un soggetto è posizionato in un ruolo che non è adatto al suo genere e questo inficia la riuscita del mio progetto”.

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In generale sono le donne le più marginalizzate dai processi produttivi e politici, ma non è sempre così. Ci sono contesti in cui la marginalizzazione riguarda gli uomini “Ad esempio nei campi profughi” spiega Del Turco “ dove gli uomini sono molto pochi, e la maggioranza dei servizi riguarda donne e bambini”.
Altri strumenti dell’approccio di genere sono il gender planning, il gender evaluation: “tutto il ciclo del progetto può essere rivisto alla luce della lente di genere. Dall’analisi dei bisogni, all’implementazione, fino alla valutazione dobbiamo sempre tenere presente la differenza uomo-donna” sostiene la docente.

Gli effetti sono tanti, implementare l’approccio di genere non è una scelta politica o ideologica, è prima di tutto una scelta di efficienza, che riguarda tutte le organizzazioni, le azioni di sviluppo, umanitarie o in aree di conflitto.
Un esempio che riporta Luisa del Turco è quello dell’Afghanistan dove il ruolo di uomini e donne è declinato in modo molto diverso dalle aree di provenienza dei cooperanti, se non ci sono competenze di genere si possono non solo non raggiungere gli obiettivi del programma ma anche causare danni gravi. Ad esempio se un operatore maschio prende contatti con una operatrice locale donna in un contesto sbagliato si rischia non solo di fallire ma anche di mettere a rischio l’incolumità della donna in un paese dove una percentuale altissima di donne è in carcere per reati morali.

“L’approccio di genere è fondamentale per operare nel modo giusto nel contesto relativo, ed evitare errori grossolani” ribadisce la docente “Ma si tratta anche di efficienza. Ad esempio è dimostrato che le donne sono dei canali ottimi e molto affidabili per la distribuzione degli aiuti nei contesti di emergenza”.

Le donne, marginalizzate dai poteri forti, hanno spesso sviluppato pratiche alternative nell’ambito del peacebuilding o dei processi di sviluppo, per questo conoscere e valorizzare queste pratiche può fare la differenza.

L’Italia sia nella nuova legge di cooperazione, sia nelle linee guida per l’uguaglianza di genere già citate, sia nel più recente piano d’azione per donne pace e sicurezza, è impegnata su tutti i fronti. Questo non vuol dire però che l’approccio di genere sia già interiorizzato dalla maggior parte degli operatori della cooperazione internazionale, anzi.

E per questo che Ong 2.0 ha voluto organizzare un percorso online specifico di formazione sul tema. Qui si possono trovare programma e metodologia Approccio di genere nella cooperazione internazionale”.

Credit photo: Viviana Brun

Do you speak tech?

di Serena Carta – dalla rubrica ICT4dev

Un’indagine rivolta a tutte le ong italiane per sapere se e come utilizzano le tecnologie della comunicazione e dell’informazione (ICT) nei loro progetti di sviluppo al Sud.

Radio, telefoni cellulari, computer, sistemi di geolocalizzazione: quando, dove e come li hai adottati e in quale settore degli aiuti? Rispondendo al questionario (e dandoti disponibile, se vuoi, a un’intervista successiva di approfondimento), riceverai l’e-book sulle tecnologie per lo sviluppo e il cambiamento sociale che Ong 2.0 pubblicherà nel corso del 2015. La tua esperienza sarà inoltre citata tra i casi studio ed entrerà a far parte della mappa delle buone pratiche tecnologiche della cooperazione internazionale made in Italy.

Clicca sull’immagine per compilare il questionario!

Questionario ICT4D

Scadenza: 31 gennaio 2015

Info: serena@ong2zero.org

Quando la cooperazione si fa con gli sms

«Text to change aiuta le ong a lanciare campagne sociali e a collezionare dati via sms, a monitorare un progetto e a valutarne l’impatto tramite i telefoni cellulari, a condividere informazioni con migliaia di persone». Nel cuore di Amsterdam Vps ha incontrato Hajo van Beijma, fondatore di Text to change, impresa sociale che ha messo la tecnologia mobile al servizio della cooperazione internazionale.

[Serena Carta – dalla rubrica ICT4dev]

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Elementi di portfolio