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iCut, un’app per contrastare le mutilazioni genitali femminili

Il prossimo 18 novembre, tra i sei attivisti selezionati per partecipare al Young Activist Summit 2021, dal titolo “New Generation, new solutions”, ci sarà anche la ventunenne keniota Stacy Dina Adhiambo Owino. La prestigiosa platea sarà l’occasione per tornare a parlare di iCut, l’app sviluppata assieme ad altre quattro amiche note come “The Restorers” che fornisce assistenza alle ragazze a rischio di MGF (Mutilazioni genitali femminili).
di Luca Indemini

Nel 2017, le keniote Ivy Akinyi, Macrine Akinyi, Cynthia Awuor, Stacy Adhiambo e Purity Christine hanno avuto l’opportunità di creare iCut grazie al progetto Technovation. L’app ideata dalle cinque studentesse keniane, di età compresa tra i 15 e i 17 anni, si propone di aiutare le ragazze colpite da mutilazione genitale femminile. Nonostante la pratica sia stata dichiarata illegale in Kenya nel 2011, secondo l’Unicef, una ragazza su cinque si deve ancora sottoporre a questa dolorosa e inutile tradizione.

Come funziona l’app

L’app consente alle ragazze che stanno affrontando un’imminente MGF di allertare le autorità facendo clic su un pulsante di soccorso sul proprio telefono cellulare.

L’interfaccia è molto semplice, ci sono sei pulsanti, che permettono di accedere ad altrettante aree di supporto: aiuto, salvataggio, report, informazioni, donazione e feedback. In questo modo le ragazze possono entrare rapidamente in contatto con centri specializzati, richiedere aiuto immediato oppure ottenere assistenza legale e medica, a coloro che hanno subito la dolorosa pratica.

Lo sviluppo di iCut

«In un primo momento, Stacy e io avevamo deciso di si sviluppare un’app legata al riciclo della plastica – ha raccontato Cintya al sito Love Our Girls –. In seguito, abbiamo cambiato idea e ci siamo uniti a Purity, che stava lavorando da sola a un progetto per affrontare il problema delle Mutilazioni genitali femminili». L’idea di Purity era nata quando una compagna di scuola aveva dovuto abbandonare gli studi, dopo aver subito la MGF ed essere stata obbligata a sposarsi.
In seguito, si sono aggiunte Ivy e Macrine e il gruppo ha deciso di chiamarsi The Restorers, le restauratrici, perché l’obiettivo è quello di «restituire la speranza alle ragazze senza speranza».
Nel 2019 le cinque studentesse, dopo essere state nominate per il premio Sacharov del Parlamento Europeo, istituito per premiare organizzazioni che si distinguono per la difesa dei diritti umani e delle libertà fondamentali nel modo, sono infine state selezionate per il premio finale.
In attesa di partecipare al Young Activist Summit 2021, Stacy Dina Adhiambo Owino è stata eletta tra i 25 membri dello Youth Sounding Board for International Partnership, uno spazio che permette ai giovani di esercitare un’influenza esterna sull’Unione Europa attraverso i suoi partenariati internazionali.

Il futuro di iCut

L’app iCut, al momento, è in fase di revisione annuale e a breve sarà nuovamente disponibile sul Google Playstore, per dispositivi Android. Come ci hanno raccontato le Restorers, «Prima della pandemia, abbiamo realizzato un paio di programmi di sensibilizzazione della comunità sul tema delle MGF, occasioni in cui abbiamo anche presentato l’app nelle aree maggiormente soggette al problema. Inoltre, abbiamo sviluppato una rete con i centri di soccorso locali e le reti di donne, come la rete di donne Komesi in Kenya, con cui stiamo lavorando per una distribuzione capillare delle informazioni relative all’app».
Inoltre, sono in previsione degli interventi per migliorare l’app e rendarla maggiormente fruibile, come ci hanno spiegato The Restorers:

Durante le sessioni di sensibilizzazione della comunità è emerso che c’è ancora un gran numero di vittime delle MGF non connesse a Internet. Lanceremo quindi una versione USSD di iCut, per risolvere il problema.

La nota positiva è che l’app è stata accolta positivamente dalle comunità coinvolte ed è pronta a crescere.

GivePower: un sistema a energia solare per desalinizzare l’acqua di mare

«Voglio fornire acqua a un miliardo di persone nei paesi in via di sviluppo» ha dichiarato a Inverse.com Hayes Barnard, Presidente di GivePower. In sei anni di vita, la Fondazione ha realizzato sistemi di energia solare che forniscono energia alla produzione alimentare, portano l’elettricità nelle scuole o a servizi di salvaguardia del territorio. L’intervento di maggiore impatto, che partendo dalle parole di Hayes sembra dettare la linea per il futuro di GivePower, è l’installazione di un sistema a energia solare per desalinizzare l’acqua di mare a Kiunga, in Kenya.

di Luca Indemini

Oltre due miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile; una su tre fa uso di acqua contaminata o non controllata per lavarsi, cucinare, bere. Lo rivela un recente rapporto dell’UNICEF e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Circa l’80% di queste persone vive in aree rurali dove non esistono infrastrutture di base per poter avere accesso all’acqua o dove l’acqua non è sicura o troppo lontana. GivePower ha deciso di far sua questa sfida e nel 2018 ha installato, lungo le coste della città di Kiunga, in Kenya, il primo impianto di desalinizzazione dell’acqua a energia solare.

La zona di Kiunga non è stata scelta a caso. Il territorio è particolarmente arido e per approvvigionarsi di acqua, per altro sporca e salata, gli abitanti erano costretti ad affrontare un viaggio di un’ora per raggiungere il pozzo più vicino.

La nascita del BLUdrop

Hayes Barnard, ex direttore delle entrate di SolarCity, fusasi con Tesla nel 2016, dopo aver lanciato nel 2013 GiverPower, ha trascorso un anno e mezzo a San Francisco lavorando a quella che ha battezzato «BLUdrop» o «basic life unit», una macchina che fosse in grado di portare acqua potabile ai quei due miliardi di persone che vivono in regioni con scarsità d’acqua. Quando il progetto ha preso forma, si è scelto il Kenya per la prima installazione. L’impianto ha richiesto un investimento di 500 mila dollari e un mese di lavori. La grande sfida degli impianti di desalinizzazione è che richiedono molta energia, rivelandosi troppo costosi e spesso impossibili da alimentare in zone in cui non esistono allacci alla rete elettrica. La soluzione progettata da GivePower è stata il Solar Water Farm. L’impianto utilizza una serie di pannelli fotovoltaici per produrre 50 kilowatt di energia, sei batterie Tesla Powerwall per raggiungere 90 kilowatt di stoccaggio e un sistema di desalinizzazione in grado di trasformare l’acqua di mare o salmastra in acqua potabile. Il risultato finale è un colosso di quasi 400 metri quadrati, in gradi di produrre oltre 50 mila litri di acqua potabile per più di 35 mila persone al giorno.

Yesterday on #WorldWaterDay we celebrated an incredible milestone – the grand opening of water taps in the Kiunga…

Pubblicato da GivePower su Sabato 23 marzo 2019

L’esperienza di Kiunga è stata una preziosa occasione per imparare e migliorare. L’impianto installato in Kenya è atterrato in un container, con le batterie collegate all’esterno, e ci si è resi conto che sarebbe meglio imballare le batterie in un altro container, per garantire maggior protezione e semplificare il trasporto. Inoltre, per il futuro, appare preferibile installare il macchinario all’interno dei centri abitati: a Kiunga è stato necessario aggiungere un condotto di un quarto di miglio per portare l’acqua in città.

Come Barnard ha avuto modo di raccontare a Inverse, oltre al beneficio immediato di disporre di acqua potabile, non sono mancate altre ricadute positive per il territorio e i suoi abitanti: «Una donna ha deciso di aprire un’attività di lavaggio dei vestiti nella sua comunità. E i bambini… tutte le piaghe e le lesioni sui loro corpo stanno scomparendo.» Il mantenimento dell’impianto è relativamente semplice: due filtri necessitano di essere sostituiti una volta al mese, due devono essere sostituiti una volta al trimestre. I livelli di manutenzione sono meno complessi di quelli richiesti per una piscina privata di una casa negli Stati Uniti.

Dopo Kiunga, Colombia e Haiti

Visto il successo dell’impianto di Kiunga, GivePower sta raccogliendo fondi per poterne costruirne altri in zone interessate da periodi prolungati di siccità, per garantire acqua potabile a un numero sempre maggiore di persone. Le prossime tappe sono Colombia e Haiti, dove l’approvvigionamento di acqua potabile è ancora difficile per molte comunità rurali. Il team prevede una rapida espansione. Barnard stima che un impianto possa generare entrate per circa 80/100 mila dollari all’anno. Questo significa che ogni cinque anni produce le risorse necessarie per realizzare un nuovo impianto. Il desiderio di fornire acqua potabile a un miliardo di persone nei paesi in via di sviluppo sembra destinato a non essere solo un sogno.

Da minaccia a risorsa: Precious plastic dona nuova vita alla plastica

Approccio maker, spirito “open” e una tesi di laurea. Da questi ingredienti è nato Precious Plastic, una comunità globale formata da centinaia di persone che lavorano per trovare una soluzione all’inquinamento da materiali plastici. Conoscenze, strumenti e tecniche sono condivisi gratuitamente online, per permettere a chiunque di entrare nella comunità e dare il suo contributo contro l’inquinamento. E così, sulla mappa della community di Precious Plastic, oltre a Stati Uniti, Europa e Sud Est asiatico, iniziano a nascere i primi progetti anche nel continente africano.

di Luca Indemini

Il progetto Precious Plastic è nato nel 2013 come tesi di laurea di Dave Hakkens, un ragazzo olandese che ha progettato un macchinario in grado di riciclare la plastica direttamente a casa propria.

Da quel primo strumento ne è stata fatta di strada. Le macchine ideate sono salite a quattro e sul sito internet sono state caricate le istruzioni, con tanto di video tutorial, per costruirsi i macchinari a casa, con costi che oscillano tra i 100 e i 300 euro.

I quattro macchinari sviluppati da Precious Plastic per riciclare la plastica

Si spazia dalla Shredder Machine o macchina distruttrice, che serve a ridurre i pezzi di plastica molto grandi in frammenti più piccoli e più facilmente lavorabili, alla Extrusion Machine o macchina deformante, che permette di trasformare i frammenti plastici in residui filamentosi (utili ad esempio come ricariche per le stampanti 3D) e di lavorare con gli stampi. La più avanzata Injection Machine o creatrice di oggetti, consente di creare, attraverso degli stampi, oggetti molto specifici e in tempi relativamente brevi. Infine, la Compression Machine o macchina a compressione viene utilizzata per realizzare oggetti di grandi dimensioni.

L’unico elemento su cui è consentito monetizzare sono i prodotti realizzati attraverso il processo di riciclo.

Entrare a far parte della community è semplice e immediato: basta accedere al sito web e registrarsi sulla mappa. Così, dopo un primo momento in cui si sono iscritti principalmente FabLab, maker e smanettoni, hanno iniziato ad aderire associazioni, realtà votate alla formazione e organizzazioni impegnate nei paesi in via di sviluppo.

Inoltre, in questi sei anni, la community è notevolmente cresciuta e di conseguenza anche le idee e le esperienze condivise, secondo lo spirito “open” del progetto.

Precious plastic in Africa

Nel continente africano sono una trentina le realtà che hanno aderito a Precious plastic, con background e obiettivi molto differenti. Si spazia da progetti ancora in fase embrionale, mirati soprattutto a fare cultura e far crescere una coscienza del riciclo dei rifiuti, a imprese già strutturate.

Uno dei casi più interessanti, citato anche sul sito di Precious plastic tra i “veri eroi del riciclo”, è l’impresa sociale Koun, a Casablanca, in Marocco. Un gruppo di giovani locali si occupa di raccogliere i rifiuti plastici e trasformarli in oggetti per la crescente classe media marocchina, in cerca di prodotti belli ed eticamente ineccepibili. Sgabelli, borse, cuscini, tazze e ciotole, lampade e lampadari, colorati e originali.

Koun si ispira ai principi dell’upcycling, l’arte di trasformare materiali di scarto destinati ad essere buttati in oggetti di valor maggiore dell’originale. Raccoglie le sue materie prime direttamente dalle imprese, dalle scuole o dalle associazioni di Casablanca, quindi utilizza i rifiuti raccolti per realizzare i propri prodotti. Il progetto ha anche una valenza sociale, Koun infatti impiega cinque giovani in fase di riabilitazione, che lavorano sotto la supervisione di Mohamed, il capo officina.

Situazione diversa quella del Senegal. A Dakar, più precisamente a Yoff, Precious Plastic ha trovato casa nell’ostello ViaVia, dove sono state installate tre macchine che tagliano, fondono e pressano la plastica per creare prodotti come piatti o braccialetti. A importare il progetto sono stati Karen, Jens, Masha, Jitse e Yehbonne, cinque studenti belgi dell’Università di Leuven che, sostenuti dall’AFD (Academics For Development), hanno deciso di dedicare al volontariato internazionale le loro vacanze estive.

La sede di Precious Plastic a Dakar

Un primo passo, che però ha già iniziato a produrre frutti: molti abitanti di Dakar e delle regioni circostanti hanno manifestato interesse per il progetto e vorrebbero costruire macchinari simili per rispondere al problema dei rifiuti plastici.

È nato invece come progetto pilota quello avviato tra il 2017 e il 2018 a Kisii in Kenya. In quel caso è stato UN-Habitat, il programma delle Nazioni Unite che mira a favorire un’urbanizzazione sostenibile, a invitare Precious Plastic a creare un’officina per il riciclaggio della plastica.

La sede di Precious Plastic a Kisii in Kenya

L’obiettivo era duplice: da un lato proporre una soluzione al problema dell’inquinamento da materie plastiche, dall’altro contrastare la disoccupazione giovanile. Attualmente la sede di Kisii impiega 11 persone, è particolarmente attiva nel fare cultura sul tema e nell’organizzazione di eventi di pulizia del territorio e utilizzando i macchinari di Precious plastic ha iniziato a produrre ciotole e vasi dai colori sgargianti.

Fino ad ora niente più di un intervento su piccola scala, ma se saranno confermati i buoni risultati di questa prima fase, UN-Habitat spera di poterlo replicare in tutta la regione e, perché no, in tutto il paese.

In Kenya, Internet volerà nella stratosfera

Google è in trattativa con gli operatori delle telecomunicazioni in Kenya per consentire l’accesso a Internet anche nelle zone rurali, grazie all’uso di grandi mongolfiere sospese nella stratosfera.

di Viviana Brun

 

Il nome del progetto è Loon, termine che coniuga volo e follia, nato con l’obiettivo di fornire l’accesso a Internet nelle aree rurali del pianeta. Per farlo, Google ha sperimentato l’uso di palloni aerostatici a energia solare posizionati nella stratosfera. Queste enormi mongolfiere, grandi quanto un campo da tennis, sono progettate per restare in volo per circa 3 mesi a un’altezza di circa 20 km sul livello del mare, in uno spazio sicuro al di sopra degli eventi atmosferici e fuori dalle rotte degli aerei.

Non è la prima volta che questo sistema viene utilizzato. In Perù ad esempio, proprio i palloni aerostatici hanno portato la connessione nelle aree montane. In Porto Rico, nel 2007 questa tecnologia ha permesso di ristabilire velocemente l’accesso alla rete Internet dopo l’uragano.

Ogni pallone è in grado di fornire connettività a un’area di 5.000 km quadrati. Per ottenere questo risultato, il progetto Loon collabora con società di telecomunicazioni che condividono uno spazio nello spettro radio, permettendo ai palloni di collegarsi alle proprie reti e di ritrasmettere a terra il segnale.

Grazie a un accordo con Telkom Kenya, il team di Loon si è impegnato a diffondere il segnale Internet, fornito dalla società di telecomunicazioni, in alcune delle regioni più isolate del Kenya, rimaste finore escluse dall’accesso alla rete.

La situazione kenyana e i possibili rischi per l’economia locale

Il Kenya è uno dei Paesi africani in cui il numero di utenti connesso alla rete è più alto. I dati di Wearesocial del 2018 infatti sottolineano come l’86% dei kenyani sia online. La capacità di navigazione però è limitata ad alcunee aree geografiche. A Nairobi e in molte altre zone metropolitane del Paese la connessione a Internet è molto buona, ma cosa accede quando ci si sposta?

In un territorio molto vasto, con ampie zone di savana, è difficile riuscire a realizzare un’infrastruttura in grado di portare la connessione tramite fibra ottica o ripetitori in ogni angolo dello Stato. In questo modo, ampie porzioni di territorio restano inevitabilmente isolate. Il sistema di palloni aerostatici può superare facilmente questi ostacoli fisici. Restano però alcuni dubbi sulle conseguenze a livello enomico e commerciale.

Il possibile accordo tra Google e grandi società di telecomunicazione come Telkom Kenya, e i canali di accesso preferenziale che le grandi aziende internazionali hanno con il governo locale, rischiano di sfavorire lo sviluppo delle imprese kenyane e di rafforzare la dipendenza del Paese dalla tecnologia straniera e dalle sue strategie commerciali.

Come sottolinea Ken Banks, esperto di connettività africana intervistato sul tema dalla BBC,  “Una volta che queste reti sono state installate e la dipendenza (da un operatore) ha raggiunto un livello critico, gli utenti sono in balia dei cambiamenti nella strategia aziendale, nei prezzi, nei termini e nelle condizioni… Questo sarebbe forse meno un problema se ci fosse più di un fornitore – se si potesse semplicemente cambiare rete – ma se Loon e Telkom hanno monopoli in queste aree, questa potrebbe rappresentare una bomba a orologeria“.

Se si vuole aumentare la partecipazione delle persone online, non basta infatti investire sulla tecnologia e su una rete di qualità (4G). Come afferma Nanjira Sambuli, direttrice del settore advocacy per la World Wide Web Foundation, bisogna anche rendere questa reta economicamente accessibile.

Secondo quanto stabilito dalla Commissione per lo sviluppo sostenibile della banda larga dell’ONU durante il World Economic Forum 20181 GB di dati mobili non dovrebbe costare più del 2% del reddito nazionale lordo pro capite mensile. Questo è la condizione che la Commissione ha individuato per riuscire a collegare il 50% del mondo ancora offline. Oggi in Africa, 1 GB di dati costa in media il 18% del reddito mensile.

 

 

 

Photo credits: Pixabay

 

Sms per i contadini. Perché non sempre funzionano

I telefoni cellulari sono ormai diventati uno strumento strategico per l’agricoltura in tutto il mondo. Permettono di migliorare le rese agricole dei piccoli contadini grazie alla possibilità di consulenze tecniche a distanza, aggiornamenti sui prezzi di mercato, alert sulle avversità atmosferiche e molto altro. Numerosissime applicazioni sono state diffuse nei paesi più poveri per aiutare i coltivatori a migliorare il proprio lavoro, con risultati spesso molto positivi.

Tuttavia non sempre tutto va per il meglio, ogni contesto presenta le sue caratteristiche e porta sfide specifiche, che possono limitare o vanificare le potenzialità di questi strumenti.

Marta Vigneri, studentessa alla City University di Londra e oggi servizio civile in Senegal con CISV, ha indagato le ragioni che portano molti contadini kenyoti, del villaggio Lower Subukia, ad abbandonare i servizi via telefono.

Sebbene esista in loco il progetto Direct2Farm che in collaborazione tra compagnie telefoniche e organizzazioni internazionali come Cabi e Kilimo Media International, offre un servizio di messaggi istantanei per permettere di conoscere meglio le previsioni meteo, quali sostanze applicare alle proprie coltivazioni e l’esistenza di nuovi prodotti sul mercato,  le interviste condotte ai piccoli contadini dimostrano che avere a disposizione la tecnologia non è sufficiente. Addirittura, molti che si registrano per utilizzare il servizio non ne fanno uso nonostante i servizi rapidi e disponibili in diverse lingue. Come mai?

Prezzi, seppur bassissimi, ma troppo alti per la popolazione locale, scarsa comprensione delle informazioni ricevute, preferenza a comunicare a voce invece che attraverso messaggi scritti, risultano essere le principali cause di abbandono del servizio.  Infine, le informazioni fornite non sempre coincidono con le reali necessità dei contadini.

La ricerca permette quindi alcune considerazioni immediate:  la contestualizzazione dei servizi può richiedere delle forti differenziazioni da regione a regione, nel caso del villaggio in esame, ad esempio, fornire messaggi vocali (magari prendendo esempio dalla confinante Etiopia?), ridurre i costi per singolo messaggio o meglio trovare accordi con le compagnie per servizi gratuiti, accertarsi di rendere disponibili informazioni davvero necessarie per gli agricoltori, sarebbero i tre passi fondamentali per offrire un servizio davvero adeguato e utile.

 

 

Una serra in Kenya ti scrive quando devi innaffiare i pomodori

Una serra progettata da due studenti Kenioti permette agli agricoltori di controllare la temperatura e l’umidità dell’atmosfera e del suolo attraverso i cellulari. E un messaggio li avvisa per sapere quando devono intervenire. Continua a leggere

Kenya, dove i contadini assicurano i raccolti via SMS

Micro assicurazioni, attivabili via SMS, aiutano i piccoli agricoltori del Kenya a combattere la siccità e gli altri disastri naturali, migliorandone la resilienza finanziaria e la capacità di adattamento ai cambiamenti climatici. Il sistema incrocia i dati satellitari e quelli raccolti da piccole stazioni meteorologiche sparse sul territorio, con i dati riguardanti i quantitativi di pioggia necessari per le diverse colture. Nel caso di condizioni meteorologiche avverse, la compagnia autorizza l’erogazione dei rimborsi via mobile e i contadini ricevono l’importo direttamente sul proprio telefonino.

di Viviana Brun

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