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Takataka Plastics: riciclare i rifiuti plastici e creare nuovi posti di lavoro nei paesi del Sud del mondo

Takataka Plastics è un’impresa sociale che opera in Uganda, dove trasforma i rifiuti plastici in risorse e crea posti di lavoro per i giovani che vivono per le strade di Gulu. Il progetto è frutto della collaborazione tra Paige Balcom, dottoranda a Berkeley, che ha eletto l’Uganda a sua seconda casa, e Peter Okwoko, fondatore di AfriGreen Sustain.

di Luca Indemini

Peter Okwoko è nato e cresciuto in Uganda. Grazie all’introduzione di un progetto dedicato all’insegnamento dell’informatica nella sua scuola secondaria, nel 2003 Peter scopre la sua nuova passione. Fin da subito, gli è chiaro che apprendere competenze informatiche gli avrebbe permesso di migliorare la sua comunità.

Nel 2015 ottiene una borsa di studio per un Master in Tecnologie di Comunicazione Innovativa e Imprenditorialità all’Università di Aalborg, in Danimarca. «Qui ho realizzato per la prima volta le enormi potenzialità associate alla gestione dei rifiuti plastici – ci racconta Peter Okwoko –. Ero sbalordito dal fatto che non si trovava quasi nessuna bottiglia di plastica abbandonata per le strade. Inoltre, erano previsti incentivi economici per smaltire bottigliette e lattine in appositi macchinari, installati nei pressi di molti supermercati. Tutto questo mi ha spinto a pensare a una soluzione alternativa nel mio paese. Quando sono tornato in Uganda, durante le vacanze estive del 2016, ho fondato Afrigreen Sustain, per sensibilizzare la comunità sul valore associato alla gestione dei rifiuti e sugli impatti negativi che possono avere sulla salute e sull’ambiente, se non vengono gestiti in maniera adeguata».

Nell’autunno del 2017 Paige Balcom ha iniziato la scuola di specializzazione all’Università di Berkeley con l’obiettivo di aiutare i suoi amici ugandesi a risolvere il problema della gestione dei rifiuti plastici. Per portare avanti il suo progetto, nello stesso anno, ha trascorso tre mesi in Uganda e qui ha incontrato Peter. Insieme hanno avviato TAkataka Plastica e nel 2019 hanno aperto un piccolo centro di raccolta della plastica, costruito prototipi di macchine per la gestione del ciclo di recupero dei materiali plastici e realizzato le prime mattonelle in plastica riciclata e hanno avviato una collaborazione con The Market Project.

Per la fase di startup del progetto, Internet e i canali social hanno giocato un ruolo fondamentale.

«Ci hanno permesso di apprendere le migliori pratiche in diversi paesi e anche di raggiungere diversi stakeholder, attraverso i social media – racconta ancora Peter –. Internet ci ha permesso di ottenere risultati inaspettati: da nuove partnership e pubblicità sui media a nuove conoscenze ed esperienze. Ad esempio siamo riusciti a raccogliere fondi sufficienti a donare oltre 10mila visiere in plastica per gli operatori sanitari in tutta l’Uganda. Inoltre, Internet ci ha permesso di condividere le nostre storie in più di 50 diversi paesi. La campagna Feed Gulu, che abbiamo avviato su Facebook per aiutare a nutrire la popolazione di Gulu, pesantemente colpita da COVID-19, ci ha permesso di sfamare oltre 5mila famiglie».
E sempre grazie alla rete, Peter ha potuto mettere il suo gruppo di lavoro in contatto con altri team, in altre parti del mondo, hanno seguito webinar internazionali e lavorato a distanza con un gruppo di studenti della UC Berkeley e della Stanford University, per sviluppare soluzioni più innovative sulla gestione sostenibile dei rifiuti di plastica.

La gestione della plastica in Uganda

In Uganda, abitualmente, le bottiglie di plastica scartate vengono bruciate o abbandonate per strada e nei campi. E il governo ugandese è in difficoltà nella gestione dello smaltimento di questi rifiuti.

Takataka si propone di risolvere questo problema con una tecnologia fabbricata localmente, che permette di dare nuova vita ai rifiuti di plastica. Nello specifico, trasforma gli scarti plastici in piastrelle da rivestimento, più resistenti delle alternative in ceramica e in calcestruzzo.

Si è deciso di puntare sul settore delle costruzioni perché l’Uganda deve affrontare una pesante carenza di alloggi e l’industria edile ugandese fa registrare una crescita di oltre 10% l’anno. Di conseguenza, non manca la richiesta di materiali da costruzione ed è più facile trovare una clientela.

«Stiamo implementando la nostra attività a Gulu perché non siamo in grado di tenere il passo con tutti gli ordini che riceviamo. Il nostro obiettivo è aumentare la capacità di produzione per riciclare 9 tonnellate di PET al mese (la metà dei rifiuti PET di Gulu) e creare oltre 35 posti di lavoro locali, dimostrando al contempo che Takataka Plastics può essere un’impresa redditizia e autosufficiente. Stiamo anche lavorando allo sviluppo di nuovi prodotti come polywood, pannelli di rivestimento e materiali per la pavimentazione».

Considerando tutte le nazioni in via di sviluppo, la dimensione del mercato globale sarebbe di 3,6 miliardi di consumatori. Si potrebbero creare più di 700mila posti di lavoro e riciclare due miliardi di chili di rifiuti plastici all’anno

Guardando al futuro, Peter sogna in grande, per Takataka e per i paesi africani: «Speriamo di espanderci in Uganda e negli altri paesi in via di sviluppo. Prendendo in considerazione tutte le nazioni in via di sviluppo, la dimensione del mercato globale è di 3,6 miliardi di consumatori. Creeremmo oltre 700mila posti di lavoro per giovani vulnerabili e potremmo riciclare due miliardi di chili di rifiuti plastici all’anno».

“Questo articolo è stato scritto per la Giornata Nazionale dell’Informazione Costruttiva 2021”

Quando un computer ti cambia la vita: Mayen dal campo profughi ai videogiochi

Lual Mayen è venuto al mondo più volte. La prima 24 anni fa nel Sudan del Sud, da decenni teatro di continui conflitti. La seconda quando, ancora neonato, i suoi genitori lo hanno portato in Uganda, dopo un viaggio a piedi di oltre 350 chilometri. Sopravvissuto alla guerra, si ritrova a dover affrontare la vita di un campo profughi. La terza, quando Lual ha 12 anni e riceve in dono il suo primo laptop, su cui inizia a sviluppare un videogioco. Videogioco che lo porta a un’ennesima rinascita, nei panni di sviluppatore di videogames, in quel di Washington DC.

di Luca Indemini

Quella di Lual Mayen è una storia da film. Ma in epoca digitale, sarà un videogioco a raccontarla. O meglio, a permettere di viverla. Riviverla. E capire cosa vuol dire essere immersi in un conflitto, perdere la casa, parenti e amici, dover fuggire dalla propria terra natia. E vivere in un campo profughi. Proprio in un capo profughi dell’Uganda è iniziata la rivoluzione che ha trasformato la sua vita.

Lual Mayen

Quando il piccolo Lual vide il computer che veniva utilizzato nel centro di registrazione per rifugiati, chiese a sua madre di averne uno. Richiesta che dovette suonare irrealizzabile agli occhi della madre: mancava anche il cibo, come avrebbe potuto acquistare un laptop. Ma poi Daruka, la madre di Lual, pensò che avrebbe potuto rappresentare un’occasione preziosa per suo figlio. Per tre anni si mise a lavorare sodo e cercò di risparmiare ogni centesimo, per raccogliere i 300 dollari necessari ad acquistare il laptop. All’età di 12 anni, Lual ottenne il suo primo computer. Affinché gli sforzi della madre non risultassero vani, ogni giorno Mayen percorreva un cammino di tre ore per raggiungere il più vicino Internet cafe, dove ricaricare il computer, per poi dedicarsi a imparare i primi rudimenti di informatica. Ha fatto tutto da autodidatta, guardando i tutorial che un amico di Kampala gli passava su una chiavetta USB.

Su quel laptop è nata la prima versione di Salaam, il gioco di pace che sta lanciando attraverso la sua compagnia Junub Games. All’epoca del campo profughi voleva realizzare un gioco che fosse in grado di intrattenere i suoi amici, li tenesse uniti e li aiutasse a imparare. Oggi, con Salaam, Mayen sta aprendo la strada nella categoria dei giochi a impatto sociale.

Salaam: dal campo profughi a Washington DC

Lual ha sviluppato la prima versione mobile di Salaam nel 2016, in Uganda. I giocatori dovevano toccare le bombe che cadevano dal cielo per dissolverle in una nuvola di pace prima che arrivassero a terra. Mayen ha pubblicato il link al gioco sulla sua pagina Facebook e subito ha ottenuto una grande attenzione, che in breve tempo gli ha aperto la strada per gli Stati Uniti. Il 3 luglio 2017 si è trasferito a Washington DC per partecipare al programma di accelerazione Peace Tech Labs, quindi ha lanciato Janub Games, con cui ha già rilasciato il gioco da tavola intitolato Wahda (unità).

L’idea di un gioco “vecchio stile” è stata dettata dal fatto che i videogiochi non avrebbero potuto essere giocati da molte persone nel mondo, perché non in possesso dei dispositivi necessari.

Salaam invece punta a un pubblico “digitale”: i 700 milioni di utenti di Facebook Instant Games.

Nella nuova versione di Salaam, i giocatori vestono i panni di un rifugiato che deve fuggire dalle bombe che cadono, trovare l’acqua e guadagnare punti-energia per riuscire a sopravvivere, mentre il paese del protagonista affronta la complessa transizione da un presente di guerra a un futuro di pace. Se il personaggio esaurisce l’energia, viene richiesto al giocatore di acquistare più cibo, acqua e medicine con denaro reale. I fondi così raccolti vengono devoluti in favore di un rifugiato, attraverso le partnership di Junub con numerose ONG.

La campagna su Kickstarter, purtroppo, non ha dato i frutti sperati, ma non mancano i sostenitori, tra cui il giocatore NBA Luol Deng, dei Minnesota Timberwolves. E i riconoscimenti: lo scorso anno, ai The Game Awards, Mayen ha ottenuto il Global Gaming Citizen, riconoscimento riservato a chi cerca di cambiare il mondo con i videogame.

Da Kampala alle altre città africane: aria pulita con sensori e Intelligenza Artificiale

AirQo si propone di contribuire al miglioramento della qualità dell’aria nelle aree urbane, utilizzando tecnologie a basso costo per il rilevamento delle sostanze inquinanti, al fine di fornire prove scientifiche ai policy-makers e aiutarli nella gestione dell’inquinamento atmosferico. Il progetto è nato grazie al sostegno della SIDA – Swedish International Development Cooperation Agency, che vede una partnership tra la Makerere University di Kampala e l’Ambasciata di Svezia in Uganda.

di Luca Indemini

In Africa, l’inquinamento atmosferico è più mortale della malnutrizione o dell’acqua non potabile. Già nel 2016 l’OECD Development Centre evidenziava come i decessi causati dall’inquinamento fossero 712mila all’anno, contro i 542mila da acque non sicure, e i 275mila causati da malnutrizione. A peggiorare la situazione, la maggior parte delle città nei paesi a basso reddito non effettua alcun monitoraggio regolare della qualità dell’aria.

Mappa dei rilevamenti di AirQo

Per affrontare il problema la Makerere University ha sviluppato strumenti e metodi a basso costo per monitorare regolarmente la qualità dell’aria nelle aree urbane, così da fornire informazioni in tempo reale sulle fonti e sull’entità dell’inquinamento a Kampala, sulle sponde del Lago Vittoria. «Mi sono interessato al monitoraggio della qualità dell’aria a causa della mia passione per le soluzioni tecnologiche mirate ad aiutare a migliorare la vita delle persone – ci racconta Engineer Bainomugisha, Head, Department of Computer Science at Makerere University e team leader del progetto AirQo –. Abbiamo iniziato a lavorare ad AirQo tra il 2015 e il 2016. Abbiamo cominciato con prototipi piuttosto rudimentali, costruiti con materiali recuperato in loco e creando degli strumenti di monitoraggio per l’inquinamento atmosferico a basso costo.»

Sensore di AirQo installato su un Bora bora

I dispositivi di rilevamento, a energia solare, sono stati installati in luoghi strategici, vicino alle principali scuole per tutelare ragazzi e studenti; e per avere un monitoraggio il più possibile capillare, alcuni sono stati installati sui Boda boda, i moto-taxi che operano nei dintorni di Kampala. In questo modo è possibile effettuare rilevamenti anche nelle aree più remote. Con oltre due milioni di registrazioni annuali relative alle emissioni inquinanti nei dintorni della capitale, AirQO possiede uno dei più grandi dataset sullo stato della qualità dell’aria.

La mobile app di AirQo

Mescolando queste tecnologie low cost con l’Intelligenza Artificiale, AirQo genera e quantifica i dati sull’inquinamento atmosferico, restituendoli attraverso la sua app mobile, disponibile per iOS e per Android.

Google Artificial Intelligence Impact Challenge

Quest’anno, AirQo è stato selezionato da Google.org tra i 20 migliori progetti di utilizzo dell’intelligenza artificiale per affrontare le sfide sociali, nell’ambito del Google Artificial Intelligence Impact Challenge 2019. All’invito lanciato da Google.org, che metteva in palio un grant complessivo di 25 milioni di dollari, hanno risposto più di 2500 associazioni provenienti da 119 paesi, distribuite sui 6 continenti. Tra queste domande, sono state selezionate 20 associazioni da supportare e il dipartimento di informatica della Makerere University ha ottenuto 1,3 milioni di dollari per incrementare il progetto AirQo.

Il team di AirQo, con al centro Engineer Bainomugisha

La fase di startup de progetto è stata però tutt’altro che facile, come sottolinea Engineer Bainomugisha: «I materiali necessari non si trovano facilmente qui da noi e era quindi necessario trovare fondi. Questo ha significato che dovevamo usare i nostri fondi personali per acquistare i componenti e costruire i prototipi. Nella prima fase, era anche difficile trovare il supporto degli stakeholder, perché la maggior parte voleva vedere almeno un prototipo, prima di supportare il progetto.»

Si è cominciato con una ventina di kit, distribuiti nella città di Kampala, che hanno permesso di effettuare le prime misurazioni. I risultati sono stati utilizzati da un lato per informare i cittadini e diffondere una cultura sulla tutela dell’ambiente, dall’altro per fornire evidenze scientifiche ai policy-maker e provare a favorire politiche di contenimento dell’inquinamento. Nel giro di poco tempo, i sensori sono saliti a oltre 50 e sono stati distribuiti anche in altre aree urbane, quali Mbale, Manafwa, Bududa.

Dati di rilevamento sulla collina di Naguru a Kampala

«Adesso, grazie al grant di Google, siamo in una fase di rapida crescita – commenta Bainomugisha –. Iniziamo a distribuire più sensori e ad applicare l’intelligenza artificiale per ricavare informazioni approfondite e prevedere l’inquinamento atmosferico, in aree dove non abbiamo sensori. Il nostro sogno è che la nostra tecnologia possa contribuire a pulire l’aria in tutte le città africane

Le ICT nell’educazione: che cosa sono e un esempio dall’Uganda

di Serena Carta, tratto dall’e-book “ICT4D – Guida introduttiva alle ICT per lo sviluppo”

Le ICT nell’educazione, se viste come strumento e non (solo) come oggetto della lezione, possono supportare un gran numero di funzioni vitali come l’amministrazione scolastica, l’accesso degli studenti all’educazione, l’aggiornamento degli insegnanti. Come in tutti gli altri ambiti di applicazione, le ICT portano con sé anche la possibilità di connettere le zone più marginalizzate al mondo con la più ampia comunità scientifica ed educativa. Per questo motivo internet, in particolare, si è rivelato un canale fondamentale per il mondo dell’accademia, incentivando e migliorando lo scambio e la circolazione dei saperi e della conoscenza.

Lo Spider center di Stoccolma classifica l’impiego delle ICT in ambito educativo in tre aree principali:

1. Alfabetizzazione digitale
Per approfittare degli enormi vantaggi e potenzialità derivanti dall’uso del le ICT, le persone hanno innanzitutto bisogno delle giuste competenze e conoscenze per esplorare e usare le tecnologie. L’accesso alle ICT è solo il primo passo di un lungo processo di capacity development il cui obiettivo deve essere l’inclusione digitale. Ci sono gruppi sociali particolarmente pronti e proattivi ad imparare come si usano le ICT (giovani, professionisti,
studenti…) mentre altri sono più resistenti (anziani, analfabeti). Uno sforzo deve essere fatto affinché all’alfabetizzazione digitale venga data la giusta importanza, in particolare nei primi anni della formazione durante l’infanzia e con un’attenzione particolare alle categorie svantaggiate e marginalizzate. L’obiettivo è quello di evitare l’ignoranza all’origine delle disuguaglianze sociali.

2. Gestione e coordinamento dell’educazione
Si parla in questo caso di informatizzazione del sistema educativo tramite strumenti che aiutano la pianificazione, l’amministrazione, l’organizzazione del sistema scolastico o accademico a livello nazionale, regionale e locale. Questo campo si divide in due aree: la prima comprende reti digitali, software e applicazioni che aiutano l’organizzazione del lavoro e la gestione delle risorse; la seconda comprende strumenti comunicativi, assicura che le politiche e le direttive vengano diffuse e seguite a tutti i livelli del sistema educativo e che i responsabili le attivino.

3. Formazione online, e-learning, m-learning
Coincide con nuove forme di apprendimento – flessibili, collaborative, tecnologiche – e nuovi modelli pedagogici in cui lo studente è al centro del processo; in molti casi sono anche più inclusive, perché permettono il coinvolgimento degli adulti e dei giovani al di fuori dei percorsi di apprendimento tradizionali, mettendo a disposizione un’educazione di qualità.

Ne è un esempio la Makerere University, la più grande università d’Uganda, con sede a Kampala. È frequentata da circa 40 mila studenti, ma continua ad esplorare modi innovativi di insegnare per raggiungere e coinvolgere ancora più studenti. Dal 1992 dà la possibilità di comunicare e studiare online; e nel suo piano strategico (2008/09-2018/19) grande enfasi è stata messa nell’implementazione delle ICT per aumentare l’accesso e l’uso delle tecnologie educative per raggiungere il massimo livello nell’offerta dei servizi educativi. La Makerere University ha sviluppato tramite il software open source Moodle una piattaforma che permette l’erogazione di corsi in modalità e-learning chiamata MUELE (Makerere University E-Learning Environment). La piattaforma è accessibile da pc, ma dal 2013 l’università, supportata finanziariamente dallo Spider center, sta lavorando a un progetto di mobile learning per rendere i corsi online accessibili anche da smartphone. In questi anni di prototipazione è stata sviluppata un’app Android, tre docenti sono stati formati sulla pedagogia che sta alla base dell’m-learning e un centinaio di studenti sono stati coinvolti nello studio di fattibilità e di valutazione su cinque corsi online.

photo credits: https://www.iicd.org

Open Hospital, un software per gestire ospedali rurali

Open Hospital, sviluppato dalla Onlus Informatici Senza Frontiere nel 2006, è un software open source che semplifica la gestione amministrativa di ambulatori, ospedali e centri medici, che ha trovato ampio sviluppo in Africa, in area balcanica ed in Italia. Rivelatosi un tassello fondamentale per la sopravvivenza e la buona gestione di molti ospedali in aree svantaggiate, il progetto è oggi in continua espansione, e molte sono le strutture che richiedono consulenze e supporto per l’utilizzo questo servizio.

Il software (rigorosamente gratuito ed open source), nato per venire incontro alle esigenze dell’ospedale di Angal in Uganda, è oggi giunto alla versione 1.8 ed offre una piattaforma utile per l’amministrazione di ospedali che si trovano in zone isolate e poco connesse, dove spesso la mancanza di capitale umano, medicinali ed attrezzature costituisce un ostacolo insuperabile per la cura di malattie anche banali.

Grazie ad Open Hospital, i medici e gli infermieri sono connessi ad una rete che permette loro di tenere traccia dei pazienti, di informarli delle cure necessarie via SMS, di richiedere i farmaci mancanti per tempo e di scambiarsi l’expertise necessario in momenti di crisi. Inoltre permette alle strutture di preparare la reportistica necessaria da trasmettere ai governi, per continuare ad operare legalmente. Scaricabile gratuitamente qui, il progetto è in lizza per il WSIS project prizes 2015, premio delle Nazioni Unite per progetti di e-health, inclusione sociale, alfabetizzazione, ecc. più meritevoli.

ISF (Informatici Senza Frontiere) è una Onlus italiana nata nel 2005 con lo scopo di colmare il divario digitale e favorire progetti di sviluppo inclusivi, rispettosi della dignità umana e della solidarietà. Dopo 10 anni di attività ha al suo attivo diversi progetti in Italia ed in paesi in via di sviluppo (in prevalenza in Africa), ed il progetto Open Hospital costituisce uno dei suoi maggiori campi d’azione.

 

Photo credit: Sanofi Pasteur via photopin cc