Twitter può combattere le discriminazioni legate all’HIV?

Il potenziale dei social media è noto da anni ai pubblicitari, ma si sta cominciando appena a esplorare come questi strumenti possono migliorare l’impatto delle campagne di salute pubblica.

Tra le azioni della campagna Protect the Goal, pensata da UNAids per sensibilizzare su HIV e Aids durante l’ultima Coppa del mondo di calcio, si è cercato di capire se i tweet potessero essere usati per misurare la stigmatizzazione legata all’HIV. L’obiettivo era capire se la discriminazione rendesse le persone meno inclini ad accedere a servizi sanitari come i preservativi, i test per l’HIV e i farmaci retrovirali. Sono stati raccolti circa 8.000 tweet in portoghese filtrando tutti i messaggi pubblici con una tassonomia di parole chiave che coprivano argomenti relativi alla discriminazione, la prevenzione dell’HIV e i test.

Una sfida per il progetto è stata scoprire fino a che punto le persone twittassero di questioni così personali. In questo caso è emerso come la maggioranza dei tweet estratti esprimesse attitudini discriminatorie, alcuni parlavano di prevenzione dell’HIV e molto pochi riguardavano i test: le persone twittano di preservativi, ma pochi raccontavano di aver fatto test per l’HIV. Sono stati comparati i tweet (positivi e negativi) nelle città in cui si tenevano le partite con il numero di persone che accedevano ai speciali servizi sanitari predisposti in occasione della Coppa del mondo (stazioni mobili per i test e distribuzione di preservativi).

L’analisi è ancora in corso, ma il progetto ha già avviato una riflessione su come si possono fornire informazioni su servizi sanitari e per correggere malintesi attraverso opinion leader, per esempio su come si trasmette l’HIV e sull’efficacia dei trattamenti.

il progetto ha scatenato pensieri su come possiamo fornire il follow-up le informazioni in tempo reale sui servizi sanitari e malintesi corretti attraverso social media, opinion leader, per esempio, sulla trasmissione del virus HIV e l’efficacia del trattamento.

E’ un approccio che potrebbe essere usato anche in altre aree della salute pubblica. Nel 2013 uno studio dell’Unicef in Europa orientale ha evidenziato come i social media possono essere usati per influenzare le opinioni sull’immunizzazione. La relazione raccomandava a governi e agenzie internazionali di affrontare con decisione le opinioni anti-vaccinazioni identificate sui social media.

La social media analysis può essere usata non solo per capire opinioni e attitudini. Ci sono anche potenzialità per comprendere abitudini non salutari delle persone. Per esempio, è possibile capire se una persona fuma sigarette o beve alcool usando la registrazione dei “like” su Facebook. Mappare le tendenze in rapido cambiamento a livello di popolazione è un’opportunità promettente per tenere traccia dei comportamenti a rischio, come quelli associati a malattie non trasmissibili.

Le sfide per rendere i dati estratti dai social media utili per la salute pubblica sono numerose. Occorre imparare a lavorare con un’imponente quantità di dati, incompleti e parziali: i social media non sono un campione rappresentativo della popolazione; la demografia degli utenti è spesso sconosciuta; non tutti i post sono georeferenziati quando sono pubblicati. Inoltre, è difficile seguire principi di rispetto della privacy e non accedere a dati che contendono informazioni private e personali.

Adattare i processi decisionali a considerare flussi informativi provenienti da big data non è privo di conseguenze. Eppure, è certo che i social media – e i dati che ne derivano – possono essere un potente strumento  indicatore per i diritti umani e la salute.

Fonte: The Guardian

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